Rassegna stampa martedì 25 febbraio 2014 esteri



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ECONOMIA E LAVORO



del 25/02/14, pag. 1/15



Cambia l’esecutivo ma non la ricetta

Andrea Baranes

Una riforma al mese. Entro febbraio avviare le riforme costituzionali e la legge elettorale; a marzo il lavoro; ad aprile la pubblica amministrazione; a maggio il fisco; a giugno la giustizia. Questo il piano annunciato da Renzi all’accettazione dell’incarico di formare il nuovo governo. In questo calendario 2014 delle riforme, non figura al momento la questione economico-finanziaria.

Forse non è citata esplicitamente perché fare ripartire l’economia è la priorità alla quale legare ogni altra iniziativa.

Forse non è il caso di fare annunci perché i tempi sono invece più lunghi. O forse perché sull’economia c’è poco da dire. Uno dei primi commenti sulla nomina del nuovo ministro dell’Economia italiano è arrivato da Olli Rehn, commissario europeo uscente agli Affari economici e monetari e considerato uno dei falchi dell’austerità, secondo il quale «Padoan sa cosa si deve fare». Ha invece brillato per originalità il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, il quale il giorno successivo dichiarava che «Padoan sa cosa si deve fare».

Ecco, forse non è necessario annunciare nulla in ambito economico. Di fatto non ci sono margini di manovra. È l’Europa che ce lo chiede, sono i mercati che ce lo chiedono, è la Troika che ce lo impone. Rimettere a posto i conti pubblici, tagliare la spesa, accelerare sulle privatizzazioni, continuare mansueti sul percorso tracciato dai governi precedenti.

In realtà dopo tre anni di austerità, non solo la disoccupazione ha superato il 12% e quella giovanile il 40%, non solo il paese si trova sempre più disuguale e sempre più impoverito sotto ogni punto di vista, ma il famigerato rapporto debito / Pil continua a peggiorare. Cosi come continua a peggiorare in tutti i paesi che sono passati dalle forche caudine dell’austerità. Persino il capo economista del Fondo monetario ha fatto l’anno scorso un clamoroso mea culpa riconoscendo che in particolare in un periodo di recessione, i tagli alla spesa hanno effetti prociclici, ovvero peggiorano ulteriormente la situazione.

Eppure a inizio 2014 da parte dei burocrati europei nessuna esitazione, nessun ripensamento. Non c’è alternativa all’austerità; abbiamo iscritto il pareggio di bilancio addirittura nella nostra stessa Costituzione; il Fiscal Compact non può essere rimesso in discussione; i vincoli europei su debito e deficit sono scritti nella pietra.

Se un quarto delle energie dedicate a imporre austerità e sacrifici agli stati e ai cittadini fosse stata spesa per chiudere il casinò finanziario che ci ha trascinato in questa situazione, le cose sarebbero probabilmente diverse, anche qui in Italia. A settembre 2013 l’eurocommissario Barnier annunciava che la Commissione voleva «ora affrontare la questione dei rischi insiti nel sistema bancario ombra». Cinque anni dopo il fallimento della Lehman Brothers e a sei anni dallo scoppio della peggiore crisi degli ultimi decenni, la Commissione, bontà sua, decide di affrontare la questione.

I problemi in Italia non mancano, a partire da un sistema bancario su cui gravano oltre 150 miliardi di euro di sofferenze e un totale di oltre 300 miliardi di crediti deteriorati, e che continua a chiudere i rubinetti del credito alle imprese.

Ma la partita più importante riguarda un’Europa che nel suo insieme deve «cambiare verso». «È l’Europa che ce lo chiede» è una foglia di fico sempre più inaccettabile. L’Europa siamo anche noi, e dobbiamo lavorare, da subito, per differenti politiche, tanto su scala continentale quanto qui da noi. Insistendo sulla necessità di investimenti di lungo periodo, di un piano per il lavoro, di sforare gli assurdi parametri europei per consentire una ripresa dell’economia nella direzione di una transizione ecologicamente sostenibile, di una modifica dei trattati di funzionamento della Bce e via discorrendo. Riconoscendo prima di tutto che l’austerità è il problema, non la soluzione, così come riconoscendo che i rischi maggiori vengono dalla finanza privata, non certo da quella pubblica.

Queste e altre dovrebbero essere le priorità del governo in materia economica. Rimane qualche dubbio sulla possibilità di portarle avanti per un governo che, come si affrettano a chiarire tanto dall’Europa quanto in Banca d’Italia, «sa già quello che deve fare».

del 25/02/14, pag. 6



Guidi, tutti gli interessi tra l’azienda e lo Stato

La società di famiglia della ministra per lo Sviluppo economico ha commesse con Poste italiane, gruppo Fs, ditte di trasporti pubblici di diverse città

Andrea Bonzi

Dai mezzi elettrici per Posteitaliane e i vigili urbani in decine di Comuni, agli impianti di segnalazione e ai distributori di biglietti per il gruppo Fs, sono molti i rapporti tra lo Stato italiano e le amministrazioni pubbliche e la Ducati Energia, l’azienda di famiglia di Federica Guidi, ex numero uno dei giovani di Confindustria e neoministra per lo Sviluppo economico del governo Renzi. L’imprenditrice, come primo atto dopo il giuramento, ha correttamente lasciato tutte le cariche apicali nell’impresa di cui era vicepresidente e direttore generale. E lo stesso premier ha assicurato che si occuperà personalmente di eventuali dossier che dovessero presentare rischi di conflitto di interessi. Ma il legame è strettissimo, non c’è dubbio: Guidalberto Guidi, padre di Federica, resta il titolare del gruppo (controllato da una finanziaria di cui detiene la maggioranza) e, a scorrere le commesse che Ducati Energia ha evaso e sta portando avanti con “pezzi” del settore pubblico, sembra davvero difficile, per la neoministra, dribblare tutte le possibili contaminazioni tra il ruolo pubblico e l’azienda di famiglia.



UNA MULTINAZIONALE ITALIANA

Ducati Energia - da non confondersi con la Ducati Motor, dove vengono fabbricate le celebri moto - è un marchio all’avanguardia, che ha scelto di delocalizzare la produzione all’estero. Una propensione mai nascosta da Guidi padre, “falco” di Confindustria già sostenitore di Alberto Bombassei nella corsa al vertice dell’associazione: degli oltre 700 dipendenti attuali, sotto le Due Torri ne sono rimasti circa 250 (più altri 17 al Centro ricerche di Rovereto), in pratica la “testa” del gruppo con una minima parte di operai. In Romania, Croazia, India, Argentina - con possibili sviluppi futuri in Cina e Russia - è stato spostato il grosso della produzione. Naturalmente anche il fatturato - 115 milioni di euro -, dipende in gran parte dall’estero. Da qui, le ironie del deputato di Sel, Giorgio Ariaudo, che, parlando della neoministra, si è chiesto «che esempio possa dare alle aziende italiane». La stroncatura di Stefano Fassina, espressa dalle colonne de l’Unità, poggia poi, oltre che sul versante strettamente politico (la vicinanza a Berlusconi), sui rapporti tra Ducati Energia e la pubblica amministrazione, in varie forme. Uno dei prodotti di punta dell’azienda è il Free Duck, un quadriciclo elettrico che dal 2008 viene utilizzato da Posteitaliane (spa di proprietà del Ministero dell’Economia) per il recapito “verde” della corrispondenza. Si tratta di un veicolo biposto che ha un’autonomia di 60 chilometri (o 150 per la versione ibrida) che è già in servizio in molti territori italiani: da Perugia (dove la sperimentazione è partita 6 anni fa con 57 mezzi) a Bologna, da Milano a Brescia, a Padova e Pisa, tra gli altri. Il battesimo mediatico del Free Duck avvenne nel 2009, al G8 dell’Aquila, con la consegna di 50 veicoli, ma i piccoli mezzi sono in dotazione dalla Polizia municipale di Genova e ne sta valutando l’acquisto anche la Polizia di Stato. Al progetto partecipa anche Enel (al 31% di proprietà del Mef), per la quale la ditta di famiglia della Guidi realizza già una serie di complesse apparecchiature per il controllo e la distribuzione dell’energia: le colonnine di ricarica elettrica, per i Free Duck ma non solo, sono targate Ducati Energia. Se ne trovano, ad esempio, a Milano, dove sono state sviluppate, in collaborazione con l’amministrazione, Telecom e A2A, anche “isole” wi-fi, in via di installazione, che danno informazioni su eventi e viabilità e permettono la connessione internet. C’è poi il capitolo trasporti. Per Ferrovie dello Stato, società di proprietà del Tesoro, nonché per le collegate Italferr e Rfi, la Ducati Energia divisione Railway realizza impianti di segnalamento ferroviario, “chiavi in mano”, dalla progettazione all’assemblaggio e al collaudo. In Emilia-Romagna, poi, sono diffuse sui bus le macchinette emettitrici di biglietti, commissionate negli anni passati dalle aziende di mobilità pubbliche, come l’Atc bolognese (ora Tper), e Seta (che serve Modena, Reggio e Piacenza).



LO STATO (CON SIMEST) IN AZIENDA

E se La Repubblica ha ricordato l’intesa Anci-Ducati Energia, con l’ok del ministero dell’Ambiente, alla sperimentazione di mille biciclette a pedalata assistita (nel 2011, numero uno dei Comuni italiani era Graziano Delrio), si segnala anche una partecipazione indiretta dello Stato nell’azienda bolognese. Si tratta di Simest, la società per le imprese all’estero controllata dalla Cassa depositi e prestiti (di cui il Ministero dell’Economia possiede l’80%), che nel dicembre 2012 ha acquisito il 15% delle azioni del gruppo di Guidi, con un investimento di cinque anni. Uningresso che la stessa Federica Guidi aveva salutato allora con favore, sottolineando come la Simest, fosse già stata «un’importante supporto in Croazia e Romania». Un percorso indubbiamente a ostacoli, per la neoministra. E cosa succederebbe se, ad esempio, suo papà decidesse di procedere all’acquisto di Bredamenarinibus, storica impresa costruttrice di mezzi pubblici messa in vendita dalla proprietà Finmeccanica (a maggioranza statale), per la quale in passato ha mostrato interesse? Sarà necessario muoversi, come minimo, con i piedi di piombo.



del 25/02/14, pag. 6



Carlo Secchi

C’è Guidi: Trilateral sempre al governo”



Carlo Tecce

Vedrà, ci toccherà indire un concorso pubblico, i migliori frequentano le nostre riunioni e poi vanno al governo”, Carlo Secchi provoca, scherza con ironia accademica e la battuta interlocutoria di un uomo abituato a maneggiare il potere con discrezione. La Commissione Trilaterale, gruppo di studio e di lobby, intuizione americana di David Rockefeller e di Henry Kissinger, brame di tecnocrazia e di finanza globale, è un serbatoio sempre carico per leggende (e complotti). E non manca mai l’appuntamento con l’esecutivo italiano. Il presidente italiano Secchi, ex rettore in Bocconi e consigliere d’amministrazione di sei società quotate in Borsa (Italcementi, Mediaset, Pirelli, capo di Mediolanum), non rivendica meriti: “Noi cerchiamo di mettere insieme i migliori e capita che i migliori siano chiamati a guidare anche l’Italia. A Washington accadeva spesso. Dopo Romano Prodi c’è stata un’interruzione, ma poi sono seguiti Mario Monti, illustre reggente europeo, e non dimentichiamo Enrico Letta e Marta Dassù. Come può capire vengono a pescare da noi, poi a volte ritornano. E i posti per gli italiani sono soltanto 18. Anche se il nostro Club s’è allargamento a Cina e India, oltre America, Europa e Giappone”.



Ora tocca a Federica Guidi, ministro per lo Sviluppo economico.

Auguri! Le ho mandato un messaggino, non potevo evitare i rituali complimenti. Federica ci ha accompagnato per un percorso di tre anni, ci ha fornito le proprie idee.



Come l’avete scelta?

Da noi le porte d’ingresso si spalancano per cooptazione. Federica aveva finito l’esperienza nei giovani di Confindustria e poteva darci un contributo. A Washington, ultima settimana di aprile, avremo un incontro importante.



Cosa prevede la Trilateral per il futuro?

Noi cerchiamo di agevolare il dialogo fra l’economica e la politica per far coincidere l'interesse fra istituzioni e denaro. E finalmente, lo dico con un po' di scaramanzia, è pronto un documento che dobbiamo approvare proprio entro aprile. Ci abbiamo lavorato quasi due anni, l’aveva ispirato Monti.



Il vostro concetto di mondo.

Esatto. La nostra visione per un sistema che rispetta il rigore finanziario, il libero mercato, ma non resta immobile, che riduce le tasse, rivede il fisco e aiuta i cittadini. Anche Letta e Guidi hanno partecipato a questo progetto.



Durante la stagione di Monti, aprile 2012, disse: “Il modello italiano saranno le grandi coalizioni”. Ci ha azzeccato.

Non mi sembrava un pronostico complicato. E sono convinto che vedremo ancora governi di larghe intese, seppur politici, che vanno oltre i numeri di maggioranza che esprimono gli elettori.



Non è molto democratico.

Il pianeta ha bisogno di riforme e le riforme si fanno insieme.



Ha ascoltato il discorso di Matteo Renzi?

Buone intenzioni, adesso ci deve portare le prove.



Preferisce la patrimoniale o la tassa sui Bot?

Come chiamare l'imposta sugli immobili se non patrimoniale? Il denaro va fatto circolare, non strozzato: i titoli di Stato già sono un piccolo risparmio fatto per amore di patria. Le battute spettacolari, come quella di Graziano Delrio, vanno evitate.



Avverte il conflitto d’interessi di Federica Guidi?

Mica possiamo mandare al governo i monaci che fanno voti di povertà? Deve stare attenta, deve studiare, ma ce la può fare benissimo.



Lo sforamento del Patto di bilancio, il famigerato 3 per cento, è possibile?

Per chiedere una deroga e soprattutto per ottenere una risposta affermativa, l’Italia deve sistemare i conti e preparare un piano di tagli, altrimenti è pura demagogia. L’Europa non potrebbe mai accettare. Ora i ministri devono tacere e lavorare. Chi ha un po' di potere deve stare zitto prima di fare.



Quanto conta la Trilateral?

Non determiniamo gli eventi, ma li possiamo condizionare.



del 25/02/14, pag. 4



Le promesse miliardarie di Renzi

Antonio Sciotto

L'agenda economica di Renzi nel discorso al Senato. Saldare i debiti con le imprese, tagliare «a doppia cifra» il cuneo fiscale, reddito garantito per tutti: il piano del premier è ambizioso, ma per ora non ha le risorse

Il “cuore” del programma di governo renziano dovrebbe essere il famoso “shock” che si aspetta ormai da tempo, ma che nessun esecutivo è stato in grado di generare negli ultimi anni: questo almeno ha promesso ieri il neo premier chiedendo la fiducia al Senato, con una serie di progetti più che ambiziosi per rilanciare l’economia, le imprese, il lavoro, la scuola.

Obiettivi che per essere realizzati necessitano di diverse decine di miliardi di euro: e a questo punto sarà lecito chiedersi dove Matteo Renzi pensa di reperire le risorse. Si parla di spending review (il piano Cottarelli, finora mai decollato, ma che il nuovo esecutivo vorrebbe accelerare), di privatizzazioni (ma buona parte di questi proventi dovrebbero andare all’abbattimento del debito, target che l’Europa non ha certo rinunciato a reclamare), di possibili riforme del fisco (ma già alla parola «Bot» pronunciata da Delrio si sono scatenate le proteste, e ieri lo stesso Renzi ha dovuto correggere il tiro).

Insomma, già al suo esordio l’Agenda Renzi rischia di rivelarsi costosissima. Innanzitutto il premier ha individuato un’emergenza, per le imprese: la restituzione dei debiti con la pubblica amministrazione che non sono ancora stati saldati. «Il primo impegno – ha spiegato al Senato – è lo sblocco totale dei debiti della Pubblica amministrazione attraverso un diverso utilizzo della Cassa Depositi e Prestiti». Il che vorrebbe dire reperire i circa 45 miliardi non ancora saldati (dei totali 90 calcolati dalla Banca d’Italia), caricandoli sulla Cdp: non ascrivendoli, cioè, direttamente al debito (ma l’operazione va comunque valutata, visto che la Cdp è partecipata dal Tesoro).

Quanto alla macchina pubblica, Renzi si prefigge anche di snellire la burocrazia, semplificando le norme, ma anche muovendo un attacco ai “mandarini” dello Stato, quei dirigenti inamovibili da anni, e che invece in qualche modo dovranno accettare (lo aveva detto il giorno del giuramento al Quirinale la stessa neo ministra, Marianna Madia) la «mobilità»: «Una politica forte – ha detto Renzi – è quella che affida a tempi certi anche il ruolo dei dirigenti, perché non può esistere la possibilità di un dirigente a tempo indeterminato che fa il bello e il cattivo tempo». Inoltre, «ogni centesimo deve essere visibile on line da parte di tutti, è necessario un meccanismo di rivoluzione».

Secondo obiettivo, questo sì sarebbe un bello schiaffone ai 14 euro di Enrico Letta ai lavoratori, è il taglio «a doppia cifra» del cuneo fiscale: ovvero, si intende, almeno del 10%. Se solo ci tenessimo a questa cifra, per tutti i lavoratori dipendenti, la quantificazione è presto fatta (dalla Confartigianato): si tratterebbe di circa 35 miliardi di euro, a meno che non si voglia ridurre la platea dei beneficiari. Ecco le parole di Renzi: «Una riduzione a doppia cifra» grazie a «misure serie e irreversibili, non solo attraverso il taglio della spesa, per avere nel primo semestre del 2014 risultati immediati e completi».

E qui cascherebbe l’asino: perché il rincaro fiscale dei Bot, cui aveva accennato il sottosegretario alla presidenza del consiglio Graziano Delrio, domenica a In mezz’ora, dovrebbe andare a finanziare, almeno in parte, proprio lo sgravio delle buste paga. Dopo le polemiche, Renzi si è sentito in dovere di precisare, facendo capire che il nodo c’è, ma che è ancora in discussione: «Delrio – ha spiegato il presidente del consiglio – ha detto una cosa molto semplice, e cioè che il tema della tassazione delle rendite e dei denari per la riforma del lavoro saranno oggetto di una valutazione. E voi avete titolato nel modo più pesante possibile».

Terzo obiettivo, dotare tutti i lavoratori (anche gli autonomi) di un reddito di sostegno: anche qui bisognerebbe aver chiari i criteri che il governo si prefigge per stabilire modalità e platea dei beneficiari, ma si tratterebbe di non meno di 10 miliardi di euro, per arrivare almeno fino a 20.

Infine, il piano «edilizia scolastica». Renzi annuncia di voler visitare un istituto a settimana, ogni mercoledì mattina;: «Partirò da Treviso, poi andrò in una scuola del Sud». «Bisogna cambiare il patto di stabilità interna per l’edilizia scolastica – ha detto il premier – Dal 15 giugno al 15 settembre ci sarà un programma straordinario, dell’ordine di qualche miliardo di euro, sui singoli territori in base alle richieste dei sindaci».

Del 25/02/2014, pag. 8



La crescita è sotto le attese

Sul deficit trattative difficili

Oggi le stime della Commissione Ue. Pressing sul governo per le riforme

Marco Zatterin

Nessun contatto del nuovo governo con le istituzioni a dodici stelle, per ora. Non formale, almeno. Il «benvenuto etc.» a Matteo Renzi dai due presidenti europei, quello della Commissione (Barroso) e del Consiglio (Van Rompuy), è già scritto, ma attende il voto di fiducia alla Camera per rispettare l’etichetta. Arriverà in parallelo alla pubblicazione delle previsioni d’inverno della Commissione Ue, esercizio che fa presumere nuove difficili sfide per l’Italia. E col messaggio, almeno a sentire una fonte europea, che «a riforme avviate si potrà ragionare su margini più morbidi per risanare, ma che il rispetto della soglia massima del 3% per il rapporto deficit/Pil non è in questa fase elemento che si possa togliere dal tavolo». I tecnici di un Olli Rehn in ritorno a tappe forzate dal G20 australiano stavano lavorando ancora ieri sera sui numeri. L’unica certezza, a sentire fonti vicine al commissario per l’economia, è che il dato del Pil 2014 «resterà distante » da quello indicato in ottobre dal governo Letta con la Legge di stabilità, ovvero l’1,1%. La previsione di consenso viaggia su una forchetta 0,6-0,8%, con la soglia superiore meno probabile. Circostanza, questa, destinata a riaprire il balletto sugli spazi effettivi che si pongono per il governo Renzi nei confronti degli impegni concordati con i partner Ue. Se la crescita è inferiore alla tabella di marcia nostrana (denominatore), si gonfia anche la curva di deficit e debito (numeratore). Il futuro delle politiche per lo sviluppo è chiuso in una frazione. Le cifre sui conti pubblici sono ballerine e, con queste, anche le possibilità del governo Renzi di dare copertura alla sua ambiziosa strategia. L’ultimo dato romano per il 2014 promette un deficit al 2,5% del Pil, dato che comprende uno 0,2 per i famosi investimenti pubblici che dovevano rientrare nella «clausola europea» e che non ci sono più. Nelle previsioni autunnali, Rehn ci aveva concesso un 2,7% (senza contemplare gli investimenti extra). Posto che a Bruxelles si rileva che il bilancio sia in qualche fibrillazione, non ci sarebbe da sorprendersi se – a maggior ragione con un Pil meno performante – anche il numero del deficit dovesse tornare a salire: una fonte (senza conferme) parla di un possibile 3 per cento già oggi. Un quadro fosco. A meno che la Commissione non abbia deciso di fidarsi delle promesse, cifrate e solo in parte realizzate, del ministro uscente Saccomanni. La fotografia che oggi da Strasburgo il finlandese dell’Economia invierà a Roma rischia insomma di creare i primi grattacapi per Renzi e Padoan. E allora? Ammesso che sia ancora possibile, non conviene sfondare il 3%, dicono fonti Ue, perché in tal caso scatterebbe immediatamente la procedura di deficit eccessivo con la conseguente gabbia di interventi correttivi forzata da negoziare con Bruxelles (a Parigi hanno imposto un ritocco di 1,3 punti di Pil nel 2013, e di 0,8 nel 2014 e 2015). Si può lavorare sul debito, riproponendo un discorso analogo a quello che nelle settimane scorse era stato portato avanti dal governo Letta (con Enzo Moavero). Dicono a Bruxelles che l’Italia dovrebbe formalizzare il pacchetto di riforme e cominciarne l’attuazione. A quel punto - posto che il disavanzo sia sotto il 3% del Pil e la situazione strutturale assomigli a quella richiesta - si potrebbe argomentare che le regole attuali costringono a far confluire tutti i progressi contabili nella correzione del debito (lo dice il Fiscal Compact) e non verso crescita e lavoro. Su queste grandezze, si potrebbe discutere e ottenere qualcosa, a patto che le riforme siano concrete davvero. Il coraggio politico ed economico sono la chiave principale. Ma senza la concretezza e la credibilità potrebbero alla fine risultare inutili.
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