Rassegna stampa martedì 25 febbraio 2014 esteri



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INTERNI

Del 25/02/2014, pag. 1-27



I VUOTI DA RIEMPIRE

MASSIMO GIANNINI

IL GOVERNO secondo Matteo è lo specchio fedele di un modello politico-istituzionale: più che il presidente del Consiglio, l’uomo che chiede la fiducia al Parlamento e al Paese è il sindaco d’Italia. Renzi guida un esecutivo snello, giovane e rosa, dove la sola figura che conta, perché comanda e decide, è quella del premier. Più che un “governo Renzi”, quella che vediamo giurare al Quirinale e poi muovere i primi passi in Senato è una “giunta Renzi”. Ed è esattamente con questo spirito che si rivolge alle Camere, per chiedere un voto che allunghi la vita di una legislatura altrimenti svuotata di senso.

Il discorso d’investitura del presidente-sindaco riflette la dimensione neo-leaderistica e post- ideologica del renzismo. Anche a Palazzo Madama, come è già successo a Palazzo Vecchio e come succederà a Palazzo Chigi, il “messaggio” è lui stesso. In questo «tempo del coraggio» e in questa promessa di «cambiamento radicale» (quasi a prescindere dai contenuti) si condensa e si esaurisce tutto. Leggi e riforme sono appena accennate. Destra e sinistra non sono mai menzionate. Il premier è il programma. E la fiducia che chiede non è tanto alla credibilità del suo progetto politico, quanto alla sua capacità di renderlo, di volta in volta, visibile e praticabile.

Il «manifesto» illustrato dal premier va giudicato su due piani distinti. C’è il piano della “forma”, che è distesa ma convincente. Il suo sembra un discorso da campagna elettorale, più che un testo istituzionale. Da sindaco, Renzi parla al cuore degli elettori più che alla testa degli eletti. Si rivolge alla gente comune più che alla “casta”, alla quale in replica lancia una sfida aperta, rivendicando una sua cifra “stilistica” irriducibile, se non addirittura incompatibile con i canoni del Palazzo. Ripete cose di buon senso, che ognuno di noi dice o sente dire nella vita di tutti i giorni: dalla necessità di tagliare i lacci della burocrazia all’urgenza di ridare dignità agli insegnanti. Gli interessa il dialogo con le persone normali che soffrono (come «i genitori di Lorenzo » morto in un incidente stradale e «Lucia sfregiata con l’acido») più che quello con i senatori che nicchiano (come quelli di Gal). Il linguaggio è semplice, immediato, fuori dagli schemi e dall’ortodossia. Dunque moderno. Come moderno è l’eloquio di oltre un’ora, a braccio e con la mano in tasca.

Poi c’è il piano della “sostanza”, che è estesa ma insufficiente. Dopo il drammatico risveglio dal ventennale incubo berlusconiano, sentire un altro presidente del Consiglio che parla del «gusto di fare sogni più grandi» solleva un filo di inquietudine. Dopo i molti annunci e i molti “titoli” lanciati in questi giorni (dalla direzione pd del 13 febbraio allo scioglimento della riserva sul Colle del 21 febbraio) da Renzi si aspettavano risposte convincenti su almeno tre questioni politiche (qual è il motivo della sfiducia al governo Letta, qual è la natura del nuovo governo che ha deciso a sorpresa di guidare

e qual è il percorso della nuova legge elettorale) e su almeno quattro questioni programmatiche (quali sono le linee guida delle riforme del lavoro, della pubblica amministrazione, del fisco e della giustizia). Bisogna dirlo con chiarezza: nessuno di questi nodi è stato sciolto.

Sulla politica, Renzi rende un tributo pubblico al suo partito, con un’empatia e una convinzione che non aveva mai manifestato prima. Ma non spiega le ragioni profonde che hanno spinto il Pd a sacrificare Letta e il suo segretario a sostituirlo al governo. Per spazzare via gli equivoci su un passaggio oggettivamente critico

della legislatura non basta dire «abbiamo deciso di accelerare perché fuori di qui c’è un’Italia curiosa, che si vuole bene ed è stanca di aspettarci» o «perché eravamo al bivio delle elezioni », né ripetere «avrei preferito arrivare a Palazzo Chigi con un passaggio elettorale». Per dissolvere le ombre sull’identità di una maggioranza innaturale che ora diventa addirittura «strutturale» non basta dire «questo è un governo politico, con i segretari di partito dentro, perché pensiamo che la politica non sia una parolaccia».



Il premier avrebbe dovuto fare uno sforzo in più. Lo stesso che ha fatto, e questo gli va riconosciuto, quando ha chiarito che la nuova legge elettorale resta «la priorità», e per giustificare la riforma del bicameralismo si è rivolto ai senatori con un colpo a sorpresa, dicendo «spero di essere l’ultimo presidente del Consiglio che fa questo discorso in quest’aula». Se l’Itali-cum ha una logica, non può essere un «taxi» occupato solo per destabilizzare il governo Letta e per entrare a Palazzo Chigi attraverso l’ingresso di servizio. Sull’economia, Renzi rende un tributo pubblico all’Europa, con una solennità e una forza che non aveva mai usato prima. Ma non spiega i dettagli del Jobs Act (se non ribadendo l’introduzione di uno strumento di tutela «universale»), della riforma della pubblica amministrazione (se non rilanciando la giusta battaglia contro il Leviatano ministeriale e a favore dell’»accountability» per i dirigenti inamovibili) e della riforma del fisco (se non annunciando l’invio a domicilio della dichiarazione dei redditi pre-compilata per dipendenti e pensionati). Su questi temi centrali dell’agenda di governo, onestamente, era lecito aspettarsi di più. Su alcune misure Renzi ricalca le orme lasciate da Letta, e già inserite nell’ultima Legge di Stabilità: lo «sblocco totale, e non parziale, dei debiti della PA verso le imprese», l’«aumento del Fondo di garanzia per le Pmi» (già innalzato a 95 miliardi) e persino l’edilizia scolastica essenziale a «rammendare le nostre periferie » (1,8 miliardi già stanziati). Su altre misure glissa o non lascia tracce visibili. Non una parola sulla tassazione delle rendite finanziarie e sull’incidente in cui è incappato Delrio a proposito della rimodulazione dell’aliquota sui Bot. Non una parola sulle risorse necessarie a coprire la promessa più importante del suo piano, cioè «la riduzione a doppia cifra del cuneo fiscale». Dieci punti di abbattimento valgono 34 miliardi. Si coprono tutti con la miracolosa spending review? E dove calerà la mannaia di Cottarelli? Ma i dubbi maggiori riguardano la giustizia. È urgente usare non il cacciavite ma il trapano, dentro un sistema che tra rito ammi-nistrativo, civile e penale produce ritardi compresi tra i 7 e i 10 anni. Ma il berlusconismo — fatto di norme ad personam e di spallate all’ordine giudiziario, di macchine del fango e di attacchi ai «magistrati- metastasi-della-democrazia» — non si può liquidare dicendo solo «basta ai derby ideologici». I nudi «fatti», i processi per corruzione prescritti e le condanne definitive per frode fiscale, i lodi Alfano e le leggi Cirielli, non si possono chiudere in silenzio tra le parentesi della Storia, senza dare un nome alla persona (Berlusconi) e alla cosa (la Costituzione). Dunque, che vuol dire per il presidente del Consiglio «riforma della giustizia »? Vuol dire separare le carriere di giudici e pm? Vuol dire rinunciare all’obbligatorietà dell’azione penale? Sarebbe bene saperlo. Tanto più se si ritenta un patto con il diavolo, cioè la riforma elettorale e istituzionale insieme al Cavaliere.

Anche se la velocità è la sua arma, e il cambiamento la sua condanna, Renzi avrà un solo modo per dare al Parlamento e al Paese i chiarimenti che il suo discorso sulla fiducia non ha fornito. Fare in fretta, e al meglio, le tante cose che promette. Ma il premier è il primo a conoscere le grandi difficoltà e gli enormi rischi della sua «missione». Ha numeri appena sufficienti al Senato, e comunque l’aritmetica non fa una politica. Ha due maggioranze parallele, una per il governo (con il Nuovo centrodestra) e una per la riforma elettorale (con Forza Italia). In queste condizioni, durare fino al 2018 può risultare davvero una «smisurata ambizione». Ma Renzi ha una sacrosanta ragione, quando sostiene che ormai c’è «una sola occasione, questa». Se ce la giochiamo, non fallisce solo il «sindaco d’Italia». Fallisce l’Italia.

m.giannini@repubblica. It

Del 25/02/2014, pag. 6



I dubbi del Pd sul premier: “Renzi ha un peccato originale”

Sospetti anche sulla giustizia

Il caso conflitto di interessi. Prodi: non andrò al Quirinale

GIOVANNA CASADIO

ROMA — «Il governo Renzi ha un peccato originale, come ha scritto l’Osservatore romano...» . Francesco Russo, senatore amico di Enrico Letta, nelle ore della fiducia al governo a Palazzo Madama ha lanciato l’hashtag #matteostaisereno, che imita quell’#enricostaisereno di Renzi, smentito poi dalla staffetta al governo. «Una staffetta anche un po’ violenta, ma tutti i Democratici appoggeranno questo governo », assicura Russo. Malpancisti tanti, però il Pd è domato. Il dissenso non fa danno, perché i voti di fiducia al segretario-premier non mancano e si allineano anche i civatiani.

Nell’assemblea mattutina del gruppo al Senato, e subito dopo il discorso di fiducia, gli anti renziani del Pd si sfogano e contestano.

Miguel Gotor, che ideò la campagna elettorale di Bersani contro Renzi alle primarie del 2012, fa sapere che vota Renzi ma «solo per disciplina di partito»: «L’intervento del premier sorprende per la scarsezza dei contenuti programmatici e per avere assunto i toni di un vero e proprio comizio di piazza». Pollice verso e sacrificio in nome del Pd e della sua unità. Nella riunione di gruppo le critiche sono anche più accese e di merito. Un tormentone si scatena contro la scelta di Federica Guidi alla guida del ministero dello Sviluppo economico, sul conflitto d’interessi e l’impronta di politica industriale. Gotor allude alla possibilità di un’intesa riservata con Berlusconi, con cui Guidi è in grande sintonia. Massimo Mucchetti si chiede e chiede: «Ci sono cose che non quadrano: avendo chiesto e ottenuto la disponibilità per quel dicastero dell’ad di Ferrovie, Mauro Moretti e di Franco Bernabè, perché scegliere poi la Guidi?». Mucchetti ricorda le uscite da falco della Guidi quand’era presidente dei giovani industriali sulle 43 ore di lavorative e i contratti individuali. E ci sono stati nella riunione dem gli “affondo” sull’Italicum, sul timing delle riforme e sulla giustizia. Le tensioni non mancano. Paolo Corsini, ex sindaco di Brescia, boccia il neo premier: «Renzi forse non ha capito la differenza tra un Consiglio comunale e l'aula del Senato. Ha tenuto un piccolo comizio da modesto segretario di partito». Walter Tocci allarga le braccia: fino all’ultimo è stato incerto se votare la fiducia a Renzi come tutta la corrente di Civati. Irrituale il discorso di Renzi, persino il suo atteggiamento con le mani in tasca? Il premier sfida anche i senatori del suo partito. «Matteo è un comiziante ragiona Laura Puppato - quindi il discorso è riuscito, anche se si è scordato un bel po’ di argomenti, glieli ricorderemo noi». Gli anti Renzi del Pd lo aspettano al varco: «Vedremo se manterrà le promesse ». Vannino Chiti e Mario Tronti esprimono dubbi sui metodi del rottamatore. I renziani rispondono che è il solo modo per uscire dalla palude. Renzi attacca la classe politica incapace persino di scegliere un presidente della Repubblica. I prodiani apprezzano. Romano Prodi tuttavia a chi gli chiede se potrebbe essere candidato di nuovo al Quirinale replica seccamente: «Io al Colle? No, come si dice, “the game is over”, la gara è finita: sono tutti giovani, tutti nuovi, quindi uno deve capire quando è il proprio tempo e quando il proprio tempo è passato». Critiche anche sul «compromesso» sui diritti civili che il premier annuncia.



Del 25/02/2014, pag. 1-9



Il racconto

L’alfabeto di Matteo

FILIPPO CECCARELLI

LE PAROLE, al giorno d’oggi, si misurano e si pesano. Ieri Renzi si è rivolto molto più al grande pubblico che ai senatori, che pure ha cercato di coinvolgere, a tratti anche divertendoli, per il resto sforzandosi di stupirli senza troppo preoccuparsi che alcuni si sarebbero disorientati.

LA NOVITÀ comunque c’è. Così parlò Renzi in quelle che un tempo si sarebbero definite «dichiarazioni programmatiche» e ieri lui stesso ha suggestivamente assimilato a una specie di «Truman show».

Io, noi. Pronomi interscambiabili. «Apprezzo», «ci avviciniamo», «non vorrei», «abbiamo svolto». Il protagonismo egocentrato convive con una dimensione collettiva, ma nell’economia generale del discorso non è chiaro il motore e la funzione del loro alternarsi. L’effetto suona talvolta come un singolarissimo plurale majestatis.

Età, la mia età. Segnale di auto-distinzione anagrafica con prezioso richiamo d’esordio al brano della «pur bravissima» Gigliola Cinquetti, che con Renzi, del resto, condivise ai tempi la militanza nei comitati per l’Ulivo. Su un piano storico-oggettivo il tempo presente è indicato come: passaggio. Ma la tentazione della Generazione Erasmus è sempre in agguato.

Derby. Sta per sfida, scontro, conflitto, ma con un aperto pregiudizio di riprovazione. Vedi il «derby ideologico» sulla giustizia. Lessico calcistico, nei due interventi al Senato ridotto tuttavia al minimo.

Coraggio. Un tempo virtù che si riconosceva esclusivamente ai grandi scomparsi, oggi risorsa comunicativa ad alto impatto rivendicata in tempo reale come inconfondibile segno di leadership. Spessa abbinato, ma per negazione e sottrazione, alla paura, «non abbiamo

paura», «mai paura», eccetera.



Urgenza. Così come l’accelerazione risuonata nella replica, è la premessa della velocità, dell’impeto e dell’iper-cinetismo del nuovo presidente comunque necessari ad affrontare, anzi a prestissimo risolvere i problemi sul tappeto.

Faccia, facce. Sostantivi eminentemente visivi, quindi televisivi e come tali tipici del renzismo. Il potere sollecita sguardi, trasmette indizi, addita fenomeni che tutti possono guardare, di norma sugli schermi.

Sogno, sogni. Provenienti dalla pubblicità e resi inevitabili nella retorica della Seconda Repubblica dopo l’inaugurazione, l’uso e l’abuso di Berlusconi, ma anche di altri suoi onirici imitatori. Un indubbio progresso, nel caso odierno, la mancanza della consueta citazione di Martin Luther King, «I have a dream».

Fuori. «Fuori di qui», «fuori da quest’aula ». Un modo per sottolineare la propria estraneità alla casta, termine però menzionato ieri appena di sfuggita. «Fuori», senza nemmeno il sottotitolo (Mondadori, 2011), era d’altra parte il titolo di uno dei primi e illuminanti — con il senno di poi — libri di Renzi. Un capitolo dedicato al «complesso di Silvio», l’innominato. E oggi il cognome Berlusconi non è mai risuonato.

La madre di. Fantasioso riciclaggio «giornalese» al linguaggio bellico di Saddam Hussein (1991). «La madre dei nostri problemi», ha detto Renzi, e «la madre di tutte le privatizzazioni». Questa madre non proprio un esempio di premura e bontà.

Papà. «Credo che capire cosa significa incrociare lo sguardo di un papà... « e qui Renzi si è fermato, e ricordandosi di essere fiorentino si è regalato una civetteria lessicale per così dire identitaria: «Per non dire babbo».

I nostri figli. O anche «i nostri ragazzi». La reiterata espressione, di toccante valenza famigliare, ha introdotto e rafforzato argomenti anche ragionevoli, ma «aveva pure il senso di ricercare un accordo trasversale diretto a tutti i senatori-genitori. Struggente, devastante. Curiosa coppia di aggettivi che due volte sono comparsi nel discorso. Romantico il primo, apocalittico il secondo.

Persone. Sostantivo molto usato e mai a sproposito. Probabilmente rivelatore della cultura cattolica che sta nel background di Renzi. Si sente l’eco di Mounier e si adatta bene al tono discorsivo.

Destra, Sinistra. La prima mai citata. La seconda una sola volta, nella replica.

Slides. Anglismo esorbitante. Si poteva dire: diapositive.

Scuola, insegnanti. La parte più personale. Essendo la signora Agnese una professoressa si sentiva l’eco, e anche la vitalità, di tanti discorsi in famiglia.

Fiatone. Una dei tanti termini del sermo humi-lis, ovvero parla anche in Parlamento come mangi: «tirar via», «giocatevele», «le bandierine», «una pizza e una birra».

Racconto. La politica renziana persegue la tecnica e un po’ anche la filosofia della narrazione, o story- telling che dir si voglia. La bambina figlia di immigrati, le telefonate ai marò, alla signora sfigurata dal vetriolo, all’amico disoccupato. Un modo per andare alle questioni con lo slancio della prima persona.

Buon lavoro a tutti. La conclusione della replica come un saluto. Un tempo si diceva «Viva l’Italia» o anche «Iddio salvi l’Italia». La speranza che un più semplice augurio funzioni comunque.

Del 25/02/2014, pag. 26



SE RENZI RILEGGE BOBBIO

NADIA URBINATI

Vent’anni dopo l’uscita di Destra e sinistra di Norberto Bobbio, l’editore Donzelli ripubblica una nuova edizione con una introduzione di Massimo L. Salvadori e due commenti, uno di Daniel Cohn-Bendit e uno di Matteo Renzi. Un’edizione ritagliata perfettamente sui tempi della politica: la nascita del primo governo Renzi e le imminenti elezioni per il Parlamento europeo. Un’edizione che, inoltre, ci offre l’opportunità di conoscere meglio il nuovo Presidente del consiglio e segretario del Pd, di comprendere le sue coordinate ideali e culturali, le sue aspirazioni politiche. Questo suo intervento è a tutti gli effetti un Manifesto del partito democratico come egli lo vuole. Sono due i paradigmi centrali che fanno da architrave della sinistra renziana: la revisione a trecentosessanta gradi della filosofia dell’eguaglianza sulla quale Bobbio aveva costruito la dicotomia e, in conseguenza di ciò, la ridefinizione della coppia destra/ sinistra.

La revisione di Renzi è molto decisa e tranchant, agilissima e dotata di potenti forbici che tagliano via complessità ostiche e qualche secolo e diversi decenni di storia sociale. Va tuttavia valutata non per il rigore della ricostruzione storica, ma per il messaggio che propone. Destra e sinistra, scrive Renzi, non sono più coincidenti con la libertà individualista in un caso e la libertà che riposa su premesse di eguaglianza nell’altro. Questa dicotomia bobbiana, spiega, apparteneva a un mondo in cui le menti e le idee si situavano in blocchi e classi. Oggi c’è più complessità e quelle due grandi idee, messe in quella relazione, non servono a orientarci né nel giudizio né nella scelta. Sembra quasi che il liberismo stesso come ideologia appartenga a un tempo passato, che sia stato il marchio degli anni di Margaret Thatcher e di Ronald Reagan; un residuo (come anche il suo nemico principale, il comunismo) del tempo in cui Bobbio formulò la diade destra/sinistra. Oggi il liberismo è nelle cose, non più solo un’ideologia. La nuova sinistra deve partire di qui, da quel che c’è per andare avanti: e quel che c’è è appunto il lascito liberista dal quale non si può prescindere. Ecco perché la dicotomia di Bobbio è

passé. Il lascito non è fatto di classi o di “blocchi” ma di individui distribuiti sulla scala sociale. Renzi usa due immagini: quella spaziale di alto/basso e quella temporale di avanzamento/stagnazione. Gli attori della prima immagine sono gli “ultimi” e i primi; quelli della seconda sono individui liberi da lacci e ambiziosi lottatori per vincere la gara della vita. La diade di cui la nuova sinistra sembra aver bisogno è più marcatamente liberale di quella bobbiana e attenuata dalla solidarietà morale cristiana. Si ripropongono in questo manifesto le distinzioni, radicate nella cultura politica italiana, tra due modi di leggere la società e quindi la distinzione destra/sinistra. In un caso la distinzione parte dai principi dell’89: eguale libertà nei diritti di individui-cittadini che, diversi per culture e scelte di vita e diseguali nelle condizioni sociali, cercano attraverso lo stato e la politica (la democrazia) di creare condizioni istituzionali, civili e sociali affinché la loro diversità non si traduca in diseguaglianza di potere. Nell’altro caso, invece, la distinzione parte da premesse che si propongono come correttive della tradizione settecentesca: gli “ultimi”, una categoria che non appartiene né alla sinistra né alla politica, ed é morale ed evangelica, hanno bisogno di essere spinti in alto. Gli “ultimi” non sono come gli “umili” manzoniani, però, perché individua-listi che vogliono sbloccare le relazioni e farsi strada nel mondo. In questa lotta la sinistra ha un compito solo: quello di non perdere il “contatto con gli “ultimi”. E per farlo deve sostituire le teorie tradizionalmente sue (anche quella liberalsocialista e quelle legate agli “anni sessanta e settanta”) per abbracciare “la lingua della solidarietà” della chiesa di papa Francesco. La solidarietà giunge quando gli individui cadono. Qui sta la sinistra, più che a preparare le condizioni affinché la loro lotta sia condotta su un piede di parità e il merito sia meritato.

Anche un liberalsocialista accetta l’individualismo dell’intraprendenza e anche la rivoluzione dell’89 era nata per dare alla persona singola il potere di fare responsabilmente la sua strada. Però, nonostante questa similitudine, le soluzioni restano diverse: poiché in un caso, le forze su cui contare sono politiche e sociali, nell’altro caso sono morali e soggettive, come per esempio “l’ambizione”. Renzi inserisce qui la prospettiva del merito. È una prospettiva di riuscita che non fa centro sull’eguaglianza delle opportunità ma su una base di energia personale in una lotta quasi darwiniana per salire su, per non essere “ultimi”, per vincere. Herbert Spencer e il vangelo tornano a fare coppia, come successe ancora in passato, per esempio a fine Ottocento, quando cominciò la costruzione della società che ha partorito quella in cui ci troviamo oggi.

In questo scenario dove le categorie interpretative sono morali piuttosto che sociali, l’eguaglianza sembra obsoleta — e non serve neppure per comprendere i nuovi movimenti xenofobi e populisti, scrive Renzi. Eppure, questi movimenti sono il frutto di una lettura identitaria dell’eguaglianza, sono anzi la miglior prova di quanto bisogno ci sia di tenere insieme eguaglianza e libertà, stato sociale e diritti individuali. In questa cornice, anche il merito trova la sua giusta collocazione, perché se dissociato dall’eguaglianza delle opportunità (che il mercato non crea spontaneamente) esso diventa un passaporto per l’affermazione di chi si trova già in condizioni di vantaggio. Renzi si richiama ai democratici americani, i quali non potrebbero proprio distinguersi dai repubblicani se non mettessero a loro fondamento non solo la Costituzione ma prima ancora la Dichiarazione di Indipendenza, una dichiarazione di eguaglianza nella libertà. Liberalsocialisti come Bobbio e Amartya Sen, che Renzi menziona, non avrebbero dubbi a trovare qui le sorgenti non rinsecchite di una società democratica giusta. Ecco perché per un democratico senza l’accoppiamento con l’eguaglianza, il merito (e la stessa libertà) non è una condizione di giustizia; mentre per un liberale il merito come riuscita individuale senz’altra considerazione lo è. Ancora qui passa oggi la differenza tra destra e sinistra, tra Sen e Bobbio da un lato e Hayek e Nozick dall’altro.



Del 25/02/2014, pag. 7



Si allarga il fronte dei sì “con il naso turato”

I più dubbiosi sono civatiani, lettiani e bersaniani delPd.Ma anche i centristi non risparmiano critiche

Nel Pd si riuniscono in mattinata: nessuno mette realmente in dubbio il voto di fiducia, ma dubbi, perplessità, maldipancia su questo governo, per com’è ma soprattutto per lo strappo provocato per farlo nascere, se ne sentono tanti. «Io voto la mia sfiducia in questa sede, ma voterò la fiducia in Aula», sospira il senatore Mario Tronti, filosofo, docente universitario, tra i fondatori della teoria dell’operaismo negli anni ’60. E perplessità le esprimono anche il civatiano Walter Tocci, il bersaniano MiguelGotor, l’ex sindaco di Brescia, Paolo Corsini. Un clima di freddezza che si coglie in Aula, quando a punteggiare oltre un’ora di discorso del neopremier arrivano appena 14 applausi, pochissimo calore anche dal Pd. «Renzi forse non ha capito la differenza tra un Consiglio comunale e l’Aula del Senato. Ha tenuto un piccolo comizio da modesto segretario di partito», critica apertamente Corsini. Ma anche nel Nuovo centrodestra si riuniscono, dopo aver sentito le parole del neo premier, pure loro con qualche dubbio, per quei riferimenti a una legge sulla cittadinanza, dopo che già erano rimasti spiazzati dalle dichiarazioni di domenica sulla tassazione dei Bot («facciamo finta che non abbia detto nulla, utilizziamo la moviola», propone Formigoni): la fiducia, anche qui, non si mette in dubbio («la maggioranza al Senato sarà meno esigua di quanto qualcuno possa pensare », assicura dallo speciale di “Ballarò” il leader Angelino Alfano), ma «siamo perplessi su alcune sue dichiarazioni, lei ha detto che sarà il governo più di sinistra degli ultimi vent’anni, speriamo sia una battuta», ammette nel corso del dibattito il senatore Bruno Mancuso. Così, mentre gli interventi in Aula proseguono fino a tardi, con il neo premier per la prima volta seduto tra quegli stucchi e velluti attorniato dai suoi giovani ministri ad ascoltare, nei gruppi che sostengono il governo e di lì a poco voteranno la fiducia restano comunque dubbi e maldipancia. «L’intervento del presidente del Consiglio sorprende per la scarsezza dei contenuti programmatici e per avere assunto in alcuni passaggi i toni di un vero e proprio comizio di piazza», è il giudizio tranchant di Miguel Gotor, già consigliere politico di Bersani, a cui è ancora vicinissimo (nei giorni scorsi è andato a trovarlo nella sua casa di Piacenza): anche lui la fiducia a sera la vota, ma solo «per disciplina di partito », mentre sottolinea «una presa del potere nel segno dell’avventura », in cui «anche il fatto che Renzi abbia contraddetto in pieno i cardini della sua narrazione politica rivela la debolezza dell’operazione», che ha portato a un governo in cui «in alcuni casi i nomi dei ministri scelti si limitano a rispondere a esigenze di immagine».E anche da chi è vicino all’ex premier defenestrato Letta arriva una fiducia altrettanto tiepida: «La voterò», garantisce Francesco Russo, ma «da sincero e leale amico di Letta, potete immaginare con quale difficoltà», e lancia l’hashtag #matteostaisereno, che ricalca quello che Renzi dedicò a Letta, spiegandolo maliziosamente con un «io la parola data la mantengo». Così come resta faticosa la fiducia per l’area Civati: «Pensiamo debba farsi carico di alcuni elementi specifici senza i quali perderà la nostra fiducia», avverte Lucrezia Ricchiuti, ed elenca diritti civili, giustizia, burocrazia, e Sergio Lo Giudice confessa di votare «il governo non perché mi abbia convinto, ma per continuare a puntare sul Pd», ma non è per nulla rassicurato dal passaggio del discorso del premier sui diritti civili. Lo stesso Pippo Civati, che voterà oggi la fiducia alla Camera, è il più tormentato: «La mia è una sfiducia di fatto», spiega. Nella maggioranza, Scelta civica sarà compatta nel voto, ma anche da quelle parti Linda Lanzillotta ci tiene a ricordare che «saremo molto vigili» e punzecchia la squadra di governo, per la presenza di ministri «alcuni competenti, altri un po’ meno». Anche nel gruppo dei Popolari per l’Italia in due restano dubbiosi fino all’ultimo. Ma, nonostante gli scetticismi, la fiducia, quando è ormai notte, è destinata ad arrivare.

del 24/02/14, pag. 1



In aula aleggia il nulla al potere

Michele Prospero

Con la sua surreale montagna di parole, Renzi ha partorito il pisolino. E i segni incontenibili della noia si avvertivano anche tra i suoi senatori, increduli dinanzi a tanta vuotaggine. L’attenzione alla postura delle mascelle, il sorriso stampato in faccia non sono bastati per un discorso all’altezza del ruolo di governo che si accinge a ricoprire e in sintonia con il luogo istituzionale che l’ospitava. Ha citato subito la Cinquetti (al Quirinale il politico pop aveva evocato Celentano), il «ragazzo» presidente che gioca molto sull’età.

Ma, alla fine della sua disadorna esposizione, rimbalzano piuttosto le note amare di Battiato, quelle un po’ strazianti sulla povera patria. A Palazzo Madama, dopo la scialba prova oratoria, resta scolpita l’impressione ferrea del nulla, del pesante nulla però che si insedia al potere in un tempo di crisi che non lascia alcuno scampo.

Non basta mostrarsi scattante in bicicletta, sgommare in Smart nei vicoli di Roma, muoversi a piedi alla ricerca di un agognato bagno di folla per il politico che non ha neppure bisogno di scorta, per rappresentare davvero il nuovo. Il mito futuristico della velocità, la trita retorica del sindaco concreto perché estraneo ai palazzi romani, si convertono nel fiasco oratorio del ragazzo presidente. L’argomentare povero di Renzi stride visibilmente con la rivendicazione del ruolo della leadership.

Un discorso privo di un elevato senso politico, il suo, carente anche di connessione logica, a digiuno di sviluppi analitici, di indizi di autorevolezza. Degno della povertà culturale di un tempo di grande decadenza, il suo eloquio privo di guizzi e senza pathos (non evocano una connessione sentimentale il richiamo alle sventure del povero Lorenzo o la telefonata all’amico disoccupato) rivela la follia profonda di un paese che mescola comico e tragico, leggerezza e senso della caduta alla ricerca di un capo carismatico risolutore.

Un raro momento di verità si tocca in aula quando Renzi ricorda che domenica andando alla messa una parrocchiana lo ha avvicinato e gli ha detto «se lo fai tu, tutti davvero possono diventare presidenti del consiglio». Ecco, nell’episodio raccontato, si trova tutta la subdola forza ma anche la debolezza della strategia retorica prescelta dal nuovo segretario fiorentino. Egli punta sul facile meccanismo della identificazione immediata di un capo con il pubblico (da qui anche la demonizzazione della burocrazia, la burlesca raffigurazione della macchina statale).

E, per accorciare visibilmente la distanza del capo con la folla, evoca la verità che si disvela pienamente non tra le élite e gli odiati poteri costituiti ma nei bei «mercati rionali». Così ottiene un consenso passivo di un pubblico disarmato conquistato alla causa per l’accantonamento delle soglie di vigilanza critica. Chi ascolta è coinvolto ad arte nell’illusione che dal leader nuovo nulla ha da temere. Lui non è un potente estraneo (quelli sono stati già rottamati) ma è un amico del popolo, un giovanotto alla mano da cui è vano difendersi con strategie cognitive vigili, non è un politico separato ma un corpo che si muove e sente le cose proprio come uno di noi.

Questa penetrazione negli umori della folla confidando nei meccanismi mistificanti della identificazione assoluta, è il corredo tipico del repertorio comunicativo del leader populista. Il quale però, una volta giocata la carta della sua vicinanza organica con la gente, ha bisogno pure di mostrare i segnali della sua superiorità di capo rispetto agli altri. Senza rendere percepibile la sua spiccata differenza, cioè senza mostrare quelle doti politiche uniche che sole giustificano una diffusa credenza carismatica circa le sue attribuzioni di potestà, la comunicazione non funziona. Nessuno è riconosciuto come leader da collocare al comando solo perché è un ragazzo che balbetta come gli altri, e tutti chiamano Matteo.

Ecco, il guaio del poco lusinghiero passaggio parlamentare di Renzi risiede nel fatto che a lui riesce agevole con le metafore, con i simboli, con le immagini discendere rapidamente al livello pigro dell’uditorio post-ideologico odierno. Ma, purtroppo, non ha in dote le risorse politiche necessarie per farsi apprezzare come uno statista autentico che è capace di pensare qualcosa di più profondo che la bellezza del «rammendare le periferie».

La prima regola della retorica aristotelica classica è quella di modulare le corde del discorso a seconda dei caratteri del destinatario. E poiché il senato della Repubblica non è ancora la Leopolda, il chiacchiericcio di un discorso soporifero e non strutturato non si addice a un pubblico di politici esperti che non si lascia certo catturare dall’annuncio che ogni mercoledì farà visita a una scolaresca.

Dietro il clamoroso fiasco del discorso di Renzi, da una parte si nasconde l’esaltazione ingiustificata delle proprie doti nell’improvvisazione brillante ritenuta di per sé in grado di sconfiggere ogni ostacolo. E, dall’altra, si occulta il dispregio per la qualità della sede istituzionale che ospitava l’evento e che si attendeva un discorso dalla rigorosa struttura formale, dallo sforzo interpretativo elegante, come si conviene in un passaggio istituzionale finalizzato alla fiducia del governo.

Salito al potere senza aver mai parlato in una assise di partito o in un’aula parlamentare, insomma al cospetto di un pubblico che sa di politica, il disegno retorico di Renzi naufraga nel giorno più importante. Forse le sue inadeguate parole mostrano già quello che Heidegger chiamava il carattere evocativo dell’inizio.



del 25/02/14, pag. 7



Aumentano i sottosegretari

Ventiquattr’ore per chiudere

CLAUDIA FUSANI

ROMA


Se il governo è snello e rosa, altrettanto non si può dire per la squadra dei vice ● Fino all’ultimo si tratta. La pratica in mano a Delrio e Guerini

La squadra è snella, schema a sedici, smart, veloce e rosa. Ma la panchina per far funzionare quella squadra dovrà essere per forza di cose più robusta. E ad alta competenza. Domani la squadra del governo Renzi sarà completata con la nomina e il giuramento di sottosegretari e viceministri. Un lavoro difficile perchè da una parte ci sono ben nove partiti, tutti ugualmente utili a tenere in piedi la maggioranza, che chiedono conto e risarcimento della loro collaborazione. Dall’altra le quote del Cencelli devono saper comprendere anche competenze e professionalità specifiche. Perchè è chiaro che, col semestre europeo alle porte e avendo cassato, ad esempio, un ministero chiave come quello delle Politiche europee, viceministri e sottosegretari dovranno impostare dossier delicatissimi che la giovane squadra di governo potrebbe non essere in grado di affrontare. Non solo, i mitizzati e anche un po’ terrorizzanti ritmi renziani, costringono ad avere uomini, donne e risorse utili per qualcosa come sedici ore di lavoro al giorno. Capita così che se il team di Enrico Letta aveva 21 ministri e 40 tra viceministri e sottosegretari, i Renzi’s boys and girls potrebbero essere tra i 50 e i 60. Qualcosa come minimo tre vice per ogni ministero. Al difficile incastro stanno lavorando a tempo pieno da ieri mattina il capo della segreteria del Pd Lorenzo Guerini e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Domenico Delrio.



LA DELEGA PER GLI 007

Il totonomine impazzisce. E anche ieri al Senato, durante la maratona per la fiducia, una volta smaltiti i commenti sul discorso, molti capannelli avevano come oggetto il dossier sottosegretari. La casella più urgente da occupare è quella con la delega ai servizi segreti che è bene non lasciare mai sguarnita. Girano vorticosamente i nomi di due fedelissimi di Renzi, Luca Lotti e Matteo Richetti. Non è escluso però che prevalga la continuità, visto la delicatezza della casella, e che possa essere confermato l’uscente Marco Minniti, già viceministro agli Interni, poi alla Difesa e un pedegree politico-professionale necessario al tipo di incarico. Lotti e Richetti dovrebbero comunque ricevere altre deleghe che faranno capo sempre a palazzo Chigi e direttamente nelle mani del premier. Ad esempio l’Innovazione e la delega per i rapporti con Bruxelles. «Sul digitale vi stupirò» ha twittato domenica Renzi. L’agenda digitale può essere un volano per tirare fuiori l’Italia dalla palude. Per questo incarico si fa anche il nome del giornalista di Repubblica Riccardo Luna. Per l’Europa, Sandro Gozi distacca tutti di parecchie lunghezze. Sarebbe l’ideale erede di Moavero. A palazzo Chigi, con delega allo Sport, anche Eugenio Giani, ex presidente del consiglio comunale di Firenze. Vista la situazione e l’urgenza, uno dei criteri principali di selezione è quello della conferma delle squadre del governo Letta. I pronostici più caldi riguardano quelli legati al ministero dell’Economia, per il quale sarebbero confermati Pier Paolo Baretta, Luigi Casero, Alberto Giorgetti. New entry potrebbero essere Enrico Morando, Benedetto Della Vedova o Enrico Zanetti per Scelta civica. Giovanni Legnini dovrebbe essere confermato all’Editoria, in alternativa potrebbe approdare in via XX Settembre. Ncd dovrebbe aver garantiti un pacchetto di 6/7 sottosegretari. Tra questi Simona Vicari (allo Sviluppo) insieme con Claudio De Vincenti e Carlo Calenda (Sc). Intrigante e delicata la casella del Lavoro. A supportare Poletti, Scelta civica indica nomi già molti forti nel totoministri come Pietro Ichino e Irene Tinagli. Per la giovane Maria Elena Boschi che dovrà affrontare la doppia e indisiosa delega dei rapporti con il Parlamento (un Vietnam anche per i più esperti) e delle Riforme costituzionali, si fanno i nomi di due grandi esperti come Gianpaolo D’Andrea e Gianclaudio Bressa. Alla Difesa potrebbe essere confermato Gioacchino Alfano (Ncd) e al fianco di Roberta Pinotti potrebbe trovare posto anche uno di quei Popolari di Mario Mauro rimasti a bocca asciutta nella squadra di governo e titolari di ben dodici voti al Senato. Si fanno i nomi di Andrea Olivero, Gea Schirò, Mario Giro, Giuseppe De Mita. Alla Farnesina, ad affiancare Federica Mogherini alle prese con dossier difficilissimi, dovrebbe arrivare Lapo Pistelli (che Renzi scalzò a Firenze alle primarie del 2009) e anche un socialista. In pole il segretario del Psi Riccardo Nencini che ieri al Senato si è rivolto in lingua al concittadino Renzi. «Che la madonna dell’Impruneta l’assista, presidente, glielo dice un peccatore e se ne può fidare ».

Casella difficile anche quella della Giustizia visto che Renzi vuole la riforma entro giugno. All’annuncio, ieri al Senato, Andrea Orlando ne sentiva già tutto il peso sulle spalle. Ncd punta su Enrico Costa, capogruppo alla Camera. Renzi conta molto sull’avvocato di famiglia David Ermini. Verso la riconferma renziani doc come Erasmo De Angelis (Infrastrutture). Unposto al sole potrebbero trovarlo anche nomi nuovi come Ernesto Carbone all’ Agricoltura (Carbone ha però qualcosa da chiarire in un paio di inchieste), Angelo Rughetti e Roberto Reggi. Ci sarà spazio anche per le minoranze Pd scegliendo tra nomi come Susanna Cenni, Davide Zoggia, Matteo Orfini (Cultura, dove si fa anche il nome di Ilaria Borletti di Sc) o Francesco Verducci; Gianpiero Bocci (conferma all’Interno). Domani si chiude. Tempi record per un capitolo, quello dei sottosegretari, in genere lunghissimo. A conferma del mantra renziano: correre.



Del 25/02/2014, pag. 4



Legge elettorale,parte del Pd prepara l’alternativa all’Italicum

Proposta per alzare la soglia per il premio al 40%e addio alle liste bloccate

Amedeo La Mattina

Al Senato si sta muovendo un’operazione che, se portata fino in fondo, potrebbe scombinare i piani della riforma elettorale e del bicameralismo. Un’iniziativa di una trentina di senatori del Pd che ha tutte le caratteristiche per essere condivisa da altri colleghi della maggioranza (c’è da scommettere che interesserà pure l’opposizione). Si tratta di evitare la trasformazione di Palazzo Madama in una Camera delle autonomie composta da esponenti degli enti locali, sindaci innanzitutto, e rappresentanti del mondo culturale. «Via i senatori eletti, via i loro stipendi » è il mantra del premier che ieri nel suo discorso per la fiducia si è augurato di essere «l’ultimo presidente del Consiglio a chiedere a quest’aula la fiducia». «Sono consapevole del rischio di fare questa affermazione di fronte a senatori che non meritano il ruolo di ultimi senatori, ma lo sta chiedendo il Paese, lo sta chiedendo l’Italia », ha detto Renzi. Sembrava avvertire i capponi di tenersi pronti alla loro cottura nel forno. Le resistenze si faranno sentire, ma l’iniziativa di un gruppo di senatori Democratici, che verrà alla luce nei prossimi giorni, «vuole essere propositiva, non un ostacolo al superamento sacrosanto del bicameralismo perfetto», spiega il senatore Francesco Russo, un lettiano doc. «Siamo d’accordo che il nuovo Senato non sia composto da eletti e non esprime la fiducia al governo - precisa Russo - ma ci vuole più consapevolezza nella trasformazione di un tassello così importante delle nostre istituzioni. Il nostro modello è quello del Bundesrat tedesco: i componenti non sono eletti ma vengono designati dai i governi federali che in Italia sarebbero le Regioni». Russo parla anche di modifiche alla riforma elettorale, a quell’Italicum concordato da Renzi e Berlusconi. «Modifiche necessarie a eliminare profili di incostituzionalità come la soglia del 37% per ottenere il premio di maggioranza. Dovrebbe essere portato al 40%. Un altro problema sono le liste bloccate. Stiamo pensando a varie ipotesi per evitare che a decidere siano le segreterie dei partiti: le preferenze, i piccoli collegi o le primarie obbligatorie». Il lettiano Russo racconta di un malumore diffuso e trasversale nel gruppo del Pd che si è riunito ieri mattina prima che iniziasse la discussione sulla fiducia. Si dirà che gli amici di Letta come quelli di Bersani e di D’Alema hanno il dente avvelenato. Sta di fatto che rimangono molte incognite. Ad esempio non è sembrato chiaro se reggerà l’intesa Renzi-Berlusconi o se invece verrà scavalcata dall’accordo di maggioranza, con Alfano in particolare. Ovvero che la nuova legge elettorale verrà applicata solo per la Camera. La conseguenza sarebbe che dovrà necessariamente essere approvata la riforma del Senato e superato il bicameralismo. Verdini ieri a Palazzo Madama assicurava i senatori di Forza Italia che l’intesa con il premier regge, eccome: la nuova legge elettorale verrà approvata e sarà pronta in caso di elezioni, di interruzione anticipata della legislatura. Con buona pace di Alfano, secondo Berlusconi e Verdini, che invece pensa di avere firmato una polizza sulla vita. Per la verità le parole in aula di Renzi sembrano andare verso l’intesa con il Nuovo Centrodestra. Ha detto che «politicamente esiste un legame netto » tra riforme costituzionali (Senato e titolo V) ed elettorale. «Sono 3 parti della stessa cosa ». Per Renzi «l’Italicum è pronto per essere discusso alla Camera. Venga approvata la prossima settimana. Non si perda tempo. Se avessimo avuto l’Italicum alle scorse elezioni ci sarebbe stato il ballottaggio tra Bersani e Berlusconi e avremmo avuto un vincitore sicuro». Ecco, il premier è una priorità, «una prima parziale risposta all’esigenza di evitare che la politica perda ulteriormente la faccia». Berlusconi attraverso Verdini ha chiesto al premier di chiarire in sede di replica, di confermare che la legge elettorale non deve essere pensata solo per la Camera, in attesa delle riforme costituzionali. Renzi non l’ha fatto. Ha ribadito che il pacchetto delle riforme è unico. «E’ l’unico vero modo per rispettare la straordinaria figura di Napolitano».

del 25/02/14, pag. 5



Lista Tsipras: « Renzi? È un esorcismo»

Roberto Ciccarelli

L'altra Europa con Tsipras. Marco Revelli: «Il governo nasce dalla paura, non ha forza politica». Barbara Spinelli: «Ha scelto Tony Blair, tradisce l’Europa che vuole resuscitare»

«L’Italia danza sull’abisso nelle mani di un funambolo dilettante che cammina su una fune senza rete». Non poteva essere più feroce Marco Revelli, «garante» della lista alle europee «L’Altra Europa con Tsipras» con Spinelli, Viale, Gallino, Camilleri e Flores, nel commentare l’ascesa di Matteo Renzi a Palazzo Chigi, in virtù di una congiura di palazzo che ha visto dilaniarsi il Pd in una guerra lampo tra la corrente renziana che ha vinto le primarie e quelle perdenti dei lettiani e delle varie anime della «sinistra» interna. Revelli definisce quella del sindaco una «corsa folle» che viene applaudita «dalla Lega Coop e da Confindustria».

Le cooperative esprimono nell’esecutivo il presidente dell’Alleanza delle cooperative Giuliano Poletti, oggi ministro del lavoro. I berlusconiani hanno denunciano i conflitti di interesse della Legacoop in Expo, nella Tav, sul Montepaschi di Siena. «Il suo ministero vigila per legge sul movimento cooperativistico», scriveva ieri Il Mattinale del gruppo Forza Italia della Camera dei deputati. Nel governo delle «piccole intese» neo democristiane Confindustria esprime la figlia dell’ex vice-presidente, Federica Guidi, la cui nomina a capo del ministero dello Sviluppo Economico è stata definita «inopportuna» anche dall’ex vice ministro dell’Economia Stefano Fassina (Pd): «Troppo vicina a Berlusconi — dice — I Guidi sono proprietari di un’azienda che ha molte commesse dalla pubblica amministrazione».

Questo intreccio di interessi nella maggioranza, come del resto tra Pd e Forza Italia, disponibili all’intesa sulla legge elettorale, viene definita da Revelli «una grande matrioska dal volto di roditore». Il cencelli usato dall’ultra-democristiano Renzi è stato necesserio «per esorcizzare la crisi interna al Pd, la crisi di governabilità del Parlamento, lo stato comatoso dell’economia e la crisi di fiducia della società» sostiene Revelli. Un governo dettato dalla paura del fallimento. L’applauso gelido ieri in Senato ha riconosciuto il pericolo di vita che corre il funanbolo di Pontassieve: se cade, «cade tutto — aggiunge Revelli: finisce il Pd, si scioglie il parlamento, si commissaria il paese, si accelera la dissoluzione sociale». In Senato ieri Renzi ha confermato questa lettura. Se fallisce, «sarà tutta colpa mia». Quell’«io» va considerato un plurale maiestatis. Per questo il «renzismo è un esorcismo — conclude Revelli — Non ha competenze, autorevolezza, forzas politica per fare il miracolo».

Ieri la lista che porta il nome del leader di «Syriza» si è messa all’opposizione di Renzi, ne ha criticato il neoliberismo, ha richiamato la necessità di una nuova democrazia in Europa. Barbara Spinelli ha sezionato l’ideologia neoliberale del «renzismo». «È fatale — afferma la giornalista — se scegli Tony Blair come modello, per forza approdi al tradimento della sinistra e dell’Europa che pretendi di resuscitare». Il tradimento è anche delle promesse fatte alle primarie e ai congressi, al netto della notte dei lunghi coltelli con Letta. Blair è stato quello (insieme ai socialisti francesi, a dire la verità) a suicidare (da «sinistra») il tentativo di trasformare il Trattato di Lisbona in una vera Costituzione.

Spinelli incide nel marmo questa accusa. Perché la cecità, e l’anti-europeismo degli inglesi e dei francesi, nel 2005 portò al «colpo di stato» in Europa tra il 2008 e il 2010 quando vennero imposte le politiche dell’austerità, facendo credere a tutti che la crisi fosse quella dei debiti sovrani, non quella delle banche salvate dagli Stati europei, e dai loro contribuenti. L’attacco di Spinelli al governo si sposta sulla politica estera, in particolare sulla nomina di Federica Mogherini alla Farnesina: «Ha concentrato i suoi interessi sulla Nato, e poi sull’Europa. Chissà se è consapevole della degradazione dell’alleanza atlantica» e dei dodici anni di guerra antiterrorista voluta anche dal «cagnolino di Bush», il Blair al quale gli annali hanno consegnato persino un libro intitolato «Il liberismo è di sinistra». Tanto per far capire quale, e quanta confusione abbia prodotto la contro-rivoluzione in atto. Una situazione che ha spinto i promotori della lista Tsipras a non inserire nel logo la parola «sinistra».

Per «L’altra Europa con Tsipras» Renzi «è il terzo premier nominato (dal Quirinale, depositario di ogni verità politica) «in un Parlamento di nominati». Spinelli critica l’esclusione di Nicola Gratteri alla Giustizia e auspica una discontinuità di Pier Carlo Padoan all’Economia. Senza illusioni.

del 25/02/14, pag. 7



La minoranza Dem rivuole il partito “Nuova segreteria”

I CUPERLIANI PREMONO : “NON SIAMO UN COMITATO DEL PREMIER”. DENUNCE DI BROGLI NELLE PRIMARIE A BARI

di Luca De Carolis

Una nuova segreteria, e in tempi brevi. Perché il partito “non può essere il comitato elettorale del premier”. E perché il timore di tanti cuperliani è che la “ditta”, per citare Bersani, venga progressivamente rottamata, anche per semplice incuria. Larga parte della minoranza interna del Pd lo ripete dentro e fuori microfono: urgono sostituti ai membri della segreteria chiamati in massa al governo. Non solo: Renzi farebbe cosa buona e giusta lasciando la guida del partito a qualcun altro. “Avere un segretario che è anche premier è un’anomalia” aveva detto pochi giorni fa a Repubblica Gianni Cuperlo, scandendo le sue perplessità sul doppio ruolo. Consentito dallo statuto Pd, ma finora mai ricoperto da nessun democratico. Nella sua intervista a l’Unità di due giorni fa, Pier Luigi Bersani ha usato parole dalla sfumatura simile: “Il Pd non può essere un’appendice insignificante del governo, deve conservare la sua capacità di fare proposte”.

IL SENATORE Miguel Gotor, molto vicino a Bersani, rilancia: “Renzi deve colmare i vuoti in segreteria, perché il partito non può essere il comitato elettorale del presidente del Consiglio, ma deve mantenere una sua autonomia e una sua dialettica con il governo. In caso contrario, se l’avventura di Renzi non dovesse avere il successo che ci si aspetta, le conseguenze sarebbero pesanti per tutta la democrazia italiana: dopo le scorse Politiche il Pd è diventato il fulcro del sistema”. Ma il segretario appena eletto deve farsi da parte, lasciando spazio a un coordinatore o a un nuovo congresso? “Le forme del nuovo assetto le dovrà scegliere Renzi, confrontandosi con la direzione nazionale. Compete a lui”. Lui, il neo premier, sa che il tema andrà affrontato in tempi brevi. Non può permettersi troppi malumori e distinguo in corso d’opera: innanzitutto in Senato, dove la maggioranza ha numeri esigui. Non a caso ha inserito tra i ministri un bersaniano di ferro come Maurizio Martina. Per il ruolo di coordinatore in sua vece Renzi pensa al fedelissimo Lorenzo Guerini, attuale portavoce del Pd. C’è chi parla di una possibile promozione per Debora Serracchiani, già responsabile Trasporti. Ma è il governatore del Friuli Venezia Giulia: un bell’impegno. Nel frattempo Roberto Giachetti, renziano di vecchia data, reagisce: “Ma è possibile che mentre si tenta di rilanciare sui contenuti, c’è chi pensa subito ai posti? E poi è singolare che la richiesta arriva da chi solo qualche settimana fa non è voluto entrare in segreteria”. Alfredo D’Attorre, senatore bersaniano, cambia prospettiva: “Il primo problema non sono i posti ma la politica, ovvero la capacità del Pd di fare da stimolo a un governo che non è solo di centrosinistra su temi come la legge elettorale, l’Europa e il lavoro. L’attuale segreteria va verificata sui fatti. Credo però che Renzi nominerà un coordinatore del partito. E ovviamente il ruolo della Direzione dovrà crescere”.

DA BARI invece arriva il frastuono delle denunce di brogli. Il fosco contorno alla vittoria nelle primarie del deputato renziano Antonio Decaro, scelto domenica come candidato sindaco del centrosinistra. Decaro, primo con il 53 per cento davanti a Giacomo Olivieri (Realtà Italia) e all’indipendente Elio Sannicandro, punta a succedere a Michele Emiliano, suo mentore e compagno di fede renziana. Ma la notizia è il numero dei votanti, quasi 21 mila. Tanti, anzi troppi, a detta di Sannicandro (“mi arrivano numerosissime segnalazioni di episodi inquietanti”) e soprattutto di Emiliano, che domenica twittava così: “Andate ai seggi, c’è una chiara infiltrazione della destra nel voto libero”. Per limitare i danni, il comitato dei garanti aveva sospeso il rilascio della ricevuta per il contributo di 1 euro. Adoperata, secondo voci che si rincorrevano di quartiere in quartiere, per ottenere un compenso in denaro da oscuri capibastone.

SOSPETTI DIFFICILI da provare, ma comunque fastidiosi per il Pd di Bari. Per inciso, la città da dove Renzi aveva iniziato la campagna per la segreteria. Ieri il coordinatore locale di Forza Italia, Antonio Distaso, ha parlato di “spettacolo indecente”. Gli ha replicato il democratico Domenico de Santis: “Distaso dimostra che la destra barese ha tentato di rovinare le primarie. Numerosi esponenti di Fi presidiavano i seggi ”. Emiliano invece invoca “una regolamentazione per legge delle primarie”. Mentre Decaro ha ricevuto le congratulazioni di Renzi, della Madia e della Boschi. Primarie anche in 13 Comuni del bolognese e in tre capoluoghi lombardi. A Bergamo ha vinto Giorgio Gori, ex direttore di Canale 5, mentre a Cremona è stato scelto il ricercatore Gianluca Garimberti e a Pavia Massimo Depaoli, insegnante.

del 25/02/14, pag. 18



Il processo su Abu Omar chiuso per Pollari e Mancini undici anni dopo il sequestro

Vertici del Sismi prosciolti per il segreto di Stato

MILANO — Proscioglimento per «non luogo a procedere» perché tra il 2007 e il 2013 è stato validamente (anche se tardivamente) apposto dai quattro diversi governi Prodi-Berlusconi-Monti-Letta il segreto di Stato sulle prove a carico o a discarico degli imputati 007 italiani, seppure legittimamente acquisite dai pm Pomarici e Spataro all’epoca in cui le avevano raccolte senza che alcuno invocasse il segreto di Stato: ieri e senza sorprese, dopo l’interpretazione del perimetro del segreto data il 13 febbraio dalla Corte costituzionale, l’ultima parola della Cassazione sul sequestro dell’estremista imam egiziano Abu Omar, rapito il 17 febbraio 2003 a Milano da agenti della Cia nel programma di extraordinary renditions antiterrorismo, e poi torturato in una prigione in Egitto.

La 1° sezione della Cassazione dichiara che, «per l’esistenza del segreto di Stato, l’azione penale non poteva essere proseguita» contro l’allora direttore del servizio segreto militare italiano Sismi, Nicolò Pollari (10 anni di pena nell’Appello del 2013 ieri annullato senza rinvio), l’allora n.3 Marco Mancini (cancellati qui 9 anni dopo che il segreto di Stato lo aveva già sottratto al processo per i dossieraggi della Security di Telecom), e gli 007 Raffale Di Troia, Luciano Di Gregori e Giuseppe Ciorra (cassati 6 anni).

L’esito era scontato dopo che la Corte costituzionale, risolvendo a favore dei premier Monti e Letta il settimo conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, aveva stabilito che nel 2012 non spettava alla 5° sezione della Cassazione restringere i confini asseriti dai governi per il segreto di Stato, che è «preordinato alla salvaguardia della preminenza del supremo interesse della sicurezza dello Stato-comunità rispetto alle esigenze dell’accertamento giurisdizionale»: un segreto che, se non copre i fatti-reato come il sequestro di Abu Omar, copre però gli assetti interni degli 007 italiani e i loro rapporti con i servizi stranieri, «ancorché collegati o collegabili» a un fatto-reato. A una sola condizione: «Che gli atti e i comportamenti degli agenti siano oggettivamente orientati alla tutela della sicurezza dello Stato».

Il punto della sentenza della Consulta a rischio di tautologia, specie per future applicazioni, appare però che questa sola condizione per un uso corretto del segreto di Stato da parte dell’autorità politica (e cioè l’oggettivo orientamento dell’agire degli 007 alla tutela della sicurezza dello Stato) finisce per essere autoprodotta e autocertificata dallo stesso presidente del Consiglio che apponga quel segreto: infatti, ragiona la Corte costituzionale, siccome il segreto di Stato per legge non può coprire attività illecite extrafunzionali degli 007, allora «la ribadita e confermata sussistenza del segreto» da parte di un premier basterebbe di per sé ad «attestare la implausibilità» che il segreto copra illeciti operati a titolo personale dagli 007.

Si vedrà nei prossimi mesi se questa nozione di segreto di Stato supererà il vaglio della «Corte europea dei diritti dell’uomo» di Strasburgo, alla quale la famiglia di Abu Omar, che dalle condanne ora annullate aveva avuto 1 milione di euro di provvisionale per lui e mezzo milione per la moglie, si è rivolta lamentando la violazione da parte dell’Italia del diritto di accesso alla giustizia.

Definitive restano le condanne in Cassazione per gli americani della Cia: l’ex capocentro milanese Bob Lady (9 anni) e altri 22 latitanti 007, tra i quali il colonnello Joseph Romano (7 anni di pena) che il presidente della Repubblica il 6 aprile 2013 ha ritenuto di graziare. La Cassazione deve infine ancora giudicare l’allora capo della Cia in Italia, Jeff Castelli (7 anni in Appello), e gli agenti sotto vesti diplomatiche Ralph Henry Russomando e Betnie Medero (6 anni).

Tra gli italiani, invece, definitive sono solo le condanne dei due agenti Sismi per favoreggiamento a 2 anni e 8 mesi, Pio Pompa e Luciano Seno; i 21 mesi patteggiati nel 2007 dal carabiniere del Ros e aspirante agente Sismi, Luciano Pironi, per l’ammessa partecipazione al sequestro; e i 6 mesi, convertiti in 6.840 euro, patteggiati dal giornalista (poi parlamentare) Renato Farina per favoreggiamento. Abu Omar, quando fu rapito nel 2003, era indagato per «terrorismo internazionale» dalla Procura di Milano: il 6 dicembre 2013, in contumacia, su richiesta del pm Maurizio Romanelli, è stato condannato in primo grado dalla giudice Stefania Donadeo a 6 anni.



Luigi Ferrarella

del 25/02/14, pag. 11



L’Aquila, le Poste e quei troppi danni del terremoto

ALLO STUDIO DEI CARABINIERI UNA DOCUMENTAZIONE SEGNALA RICHIESTE INGIUSTIFICATE PER IL POST-SISMA

Daniele Martini

Alle prime luci dell’alba del 6 aprile 2009, quando ancora morti e feriti giacevano sotto le macerie de L’Aquila, i capi delle Poste si lanciarono in corsa verso la fiera del terremoto. Bisognava fare in fretta: 10 settimane, 70 giorni appena, per stimare i danni, trasmettere le cifre alla Protezione civile di Guido Bertolaso in modo che quest’ultimo potesse poi sottoporre il totale all’Unione europea e ottenere i finanziamenti del Fondo di solidarietà (Fsue). Per avere quei soldi era necessario dimostrare che il sisma aveva lasciato dietro di sé più di 3 miliardi e mezzo di guasti, soglia al di sotto della quale l’Europa non avrebbe concesso un euro di soccorso. Grazie anche ai danni segnalati dalle Poste e stimati nella bella cifra di 32 milioni di euro, i finanziamenti europei furono acciuffati: 500 milioni, gran parte dei quali (350 milioni) subito utilizzati dal governo di Silvio Berlusconi per il famoso e fallimentare progetto Case. Sulla base dei danni stimati, le Poste poi chiesero i risarcimenti opportuni alle varie assicurazioni.

IN QUEI GIORNI di dolore e confusione ci fu a L’Aquila chi ritenne opportuno documentare i danni delle Poste scattando centinaia di foto, girando video, raccogliendo email, rendiconti, files, carte, tabulati postali. Quella mole enorme di documenti fu poi consegnata al colonnello Francesco Albore, un ufficiale dei carabinieri dell’Olaf di Bruxelles, l’organizzazione europea per la lotta alle frodi, e successivamente anche alla Procura della Repubblica de L’Aquila. Il Fatto Quotidiano ha potuto prendere visione di questo materiale. Secondo chi raccolse quella documentazione le Poste si ingegnarono ad implementare con metodo i danni del terremoto aquilano. I casi raccolti sono tanti. Uno dei più clamorosi è quello del Cpo, Centro postale operativo in contrada Centi Colella. Dalle foto quel robusto palazzo in cemento e travi d’acciaio non sembra affatto distrutto, ma a spron battuto fu dichiarato seriamente danneggiato dalla direzione immobiliare postale guidata da Vincenzo Falzarano, un dirigente che poi ha fatto carriera diventando amministratore delegato di Europa gestioni immobiliari, una delle società del gruppo postale. Gli uffici e i dipendenti del Cpo furono trasferiti in un altro locale preso in affitto a sei mila euro al mese, ma il Cpo non fu sprangato, anzi, nei giorni e nelle settimane successive si tennero proprio lì svariati incontri operativi e di coordinamento. In quelle stanze installò il suo quartier generale lo stesso ingegner Falzarano insieme ai collaboratori con i computer e i collegamenti alla rete funzionanti. Il palazzo del Centro postale fu poi ristrutturato dalle fondamenta al tetto sulla base di un danno stimato di 5 milioni e 400 mila euro. Perfino per un pilastro scrostato da almeno 5 o 6 anni della Direzione postale di Pescara, città a 70 chilometri in linea d’aria da L’Aquila dove il terremoto non si era in pratica sentito, fu incolpato il sisma e calcolato un superdanno di 60 mila euro. Per i container stesso sistema. Nelle mail spedite 3 giorni dopo il terremoto l'inviato postale Falzarano comunicava all’amministratore Massimo Sarmi, al capo dei Servizi postali, Fabio Meacci, e a quello della divisione Mercato privati, Pasquale Marchese, che i primi 350 metri quadrati di container sarebbero stati installati in una settimana. Intorno al 20 aprile i container furono effettivamente piazzati e per questa prima operazione venne calcolata una spesa che agli esperti del ramo oggi appare stratosferica: oltre 450 mila euro, mentre altri 850 mila euro venivano indicati come costi futuri. I calcoli finali facevano riferimento all’installazione di 1500 metri quadrati di container quando quelli effettivamente installati furono meno di mille. Stessa prassi con otto motorini Liberty Piaggio e una Fiat Ducato. La notte del terremoto i motorini parcheggiati sotto una tettoia del Centro postale de L’Aquila caddero per le scosse. La mattina successiva furono fotografati e rimessi sul cavalletto, nelle stesse condizioni di prima.

A SORPRESA i dirigenti li dichiararono però danneggiati ordinando di trasferirli nel centro postale di Bravetta a Roma. Dopo un po’ rispuntarono perfettamente funzionanti nelle strade della Capitale. Per i motorini e il Ducato Fiat fu stimato un danno di 94 mila euro, come risulta da un documento redatto dall’amministrazione e controllo centrale delle Poste. Dai motorini ai computer. Dalla documentazione ufficiale risulta che il terremoto aveva distrutto un ben di dio di attrezzature con un danno di 220 mila euro nel Centro operativo de L’Aquila e negli uffici direzionali di piazza del Duomo, più altri 200 mila euro negli uffici della provincia. Dalle foto e dalle testimonianze non risulta però che nel Centro postale de L’Aquila ci fossero così tanti computer compromessi. Quelli dichiarati danneggiati furono in realtà trasferiti in parte nella sede presa in affitto e rimessi in uso. Siccome però nei nuovi locali tutti quanti non c’en - travano, molti furono consegnati ad una ditta, la Poliservice di Chieti, che li ammassò nei sotterranei di uno stabile postale di Avezzano in piazza dei Cavalieri di Vittorio Veneto. La stessa sorte toccò alla stragrande maggioranza dei computer degli uffici minori. Perfino sui pasti e le trasferte dei dipendenti spediti a L’Aquila per riavviare il servizio postale fu organizzata la fiera. In quei giorni subito dopo il terremoto si potevano mangiare solo panini o un pasto caldo gratis alla mensa dell’esercito e della Croce rossa. Dai tabulati ufficiali risulta però che dal 6 al 20 aprile ognuno degli 84 dipendenti inviati dalle Poste avrebbe speso in media 448 euro al giorno. Come al Grand Hotel.




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