Rassegna stampa martedì 25 febbraio 2014 esteri



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ESTERI


del 24/01/14, pag. 14



Nella trincea dei filo-russi: «I nostri padri vinsero i nazisti adesso noi faremo lo stesso»

A Kharkiv si organizzano i comitati di autodifesa

DAL NOSTRO INVIATO KHARKIV (Ucraina) — Il ring è bianco, con le scritte dello sponsor Lexus e la gabbia intorno: «Ci facciamo i combattimenti a pugni nudi, vai su YouTube e li vedi…». Sul retro, due boxer che abbaiano e un lupo alla catena: un lupo vero: «L’abbiamo da tre anni, è la nostra mascotte». C’è un’Audi nera che passa tre volte sulla piazza Primo Maggio: «Il servizio di pattuglia, bisogna stare attenti…». L’Olpot Fight Club è una palazzina giallognola e di gusto zarista, di fianco all’ippodromo. Sbarrata ai curiosi. «Olpot come fortezza», dice Borislav Yagor, orgoglioso dello stemma: un Muro che non è mai crollato, uno scudo rosso, due lanciarazzi che fra spighe sovietiche incorniciano la scritta «Mmx Team» e annunciano la sfida del nuovo millennio, «Salvare la Russia!».

Fischia il vento, infuria la bufera, ossa rotte e pronti per menar: la nuova Ucraina non piace alla vecchia e nell’ultima città verso Mosca, a 40 chilometri dal confine e a poche ore dalla fine di un’era, c’è chi si sta organizzando. Teste rasate e tatuaggi falcemartellati, anelli coi teschi e nocche spellate. La roccaforte di Olpot non ha molto della spontanea protesta popolare: è un’organizzazione paramilitare, trecento nel gruppo di fuoco e un migliaio d’appoggio, più tutti quelli che a Kharkiv ci stanno. Il capo è l’ex comandante locale della polizia: Gylian Vlodimorovic, 38 anni, finito in galera per un’autobomba e un po’ di tangenti, miracolosamente scarcerato dietro cauzione (260 mila dollari) pagata da un milionario russo che ha fatto riavere a Gylian distintivo, stipendi arretrati e tante scuse. «Abbiamo le mazze da baseball, la gente. E se serve, qualche arma. I nostri padri hanno dato la vita contro il fascismo e il fascismo adesso è tornato a Kiev! Che cosa direste voi italiani, se a Roma andasse al governo gente mascherata e col kalashnikov?».

Lenin Fight Club. Febbraio rosso. Dalla Crimea al Donbass, c’è mezzo popolo che non rimpiange molto la fuga di Yanukovich, il corrotto di ieri, ma teme tantissimo il ritorno della Tymoshenko e l’arrivo dei nuovi padroni, i corrotti dell’altroieri. E per ogni statua post-sovietica che cade, ecco un comitato di difesa che insorge. Sull’infinita piazza centrale di Kharkiv, in mezzo un sottile cordone di polizia e due giganteschi galli gialli di cartapesta rimasti lì dalla festa del patrono, la nuova Ucraina e la Piccola Russia si fronteggiano da sabato. Già scisse. Dentro i palazzi del governatore e del sindaco, ormai fuggiti a casa di Putin, presidiano con gli scudi e coi bastoni i duri e puri di Maidan. «Non possiamo continuare a chiamare piazza della Libertà un posto dove c’è la statua del dittatore comunista», dice Mykola Gnatchenko, 28 anni, stomatologo: «Arrivano i carri armati di Mosca? Sappiano che questa non è la Georgia. Non esistono ucraini russi, ci sono ucraini e basta». Oleksandr Syvovol, 27 anni, odontotecnico: «Chi rimpiange la Russia ha paura di restare senza lavoro. Ma il lavoro qui non c’era neanche prima».

Bisogna fare mille passi. Dall’altra parte, intorno al monumento di Lenin, fanno barriera i violenti «titushki» e i vecchi nostalgici con la fettuccia arancione e nera, quella che sotto Stalin serviva a decorare Georgy Zhukov e tutti gli eroi dell’Armata rossa in trincea contro Hitler. La gente è poca, per la verità, e nel freddo battono più protesi che denti: «A noi non importa d’entrare in Europa! — gridano Ludmyla Barabasha e Svetlana Garnga, 58 e 53 anni —. Siamo venute qui trent’anni fa da Mosca, perché ci sentivamo ucraine. Abbiamo cacciato i nazisti per trovarci governati dai tedeschi?». «Io sono appena stato in Grecia — dice Leonid Stryzhko, 70 anni, ex deputato di Yanukovich — e ci sono le strade piene di gente che fa la fame. Sono stato in Polonia e ho visto che comanda solo il dio euro. Le radici dell’Ucraina non sono state piantate dagli americani: voi ci volete tutti uguali, non capite che si salverà chi resterà fedele a se stesso».

E’ il confine ultimo della terra di confine. La seconda città del Paese, eppure dimenticabile per Kiev: è difficile volare dalla capitale a Kharkiv, la mattina, perché molti aerei fanno prima scalo a Mosca. A Kharkiv si progettavano i razzi sovietici che andavano nello spazio, e si formavano gli intellettuali da mandare a Mosca. Qui veniva a svacanzare l’ultimo Breznev e qui, sabato, è apparso l’ultima volta il presidente deposto. Qui era detenuta la Tymoshenko e qui, mentre lei tornava a Kiev, si sono riuniti i governatori dell’Est per decidere se separarsi dalla capitale. Urss Memories, difendere le statue non è tutto: sul fondo della piazza, c’è il putiniano palazzo Gazprom che fa lavorare un bel po’ di città. E appena fuori, tra placche della Rivoluzione d’Ottobre e bandiere rossodorate, macina utili la più grande fabbrica di trattori della regione: 60 per cento d’export in Russia, proprietà legata alla famiglia Eltsin. «Nell’Ucraina dell’ovest si fanno le rivoluzioni, qui a Est facciamo i milioni!», una settimana fa è sceso in piazza ad arringare il sindaco, Gennady Kernes detto «Gena». Ama le sbruffonate, Gena, e a un giornalista belga che gli chiedeva perché fosse contro l’Europa, una volta mostrò un maglione rosa e rispose: «Perché avete i matrimoni gay! E crescete i figli gay! E volete che ci vestiamo tutti di rosa!...». Grande amico di Yanucovich, il sindaco. Sabato se l’è trovato davanti, terrorizzato e in fuga. Non ha perso un attimo: ha noleggiato un’auto, l’ha mollato ed è scappato pure lui.



Francesco Battistini

Del 25/02/2014, pag. 14



Yanukovich ricercato per strage Mosca: “Governo di terroristi”

Oggi il nuovo esecutivo. A Kiev gli inviati di Ue e Usa

La crisi

KIEV


DAL NOSTRO INVIATO — Nemmeno la notizia più attesa di questi tre mesi di tensione e sangue, porta il sereno tra la folla che vigila sulle barricate di . Il presidente Yanukovich è da ieri mattina il latitante più ricercato del Paese, ritenuto responsabile delle stragi commesse dalla polizia. Ma l’annuncio del ministro dell’Interno Arsenij Avakov, unico ministro di un governo che forse sarà formato solo stasera, non basta a dare tranquillità. Il Paese, lo ammette il presidente ad interim Turcinov che si sbraccia in t-shirt nera dalla tribuna del Parlamento, è sull’orlo del default. E intanto sull’Ucraina ribelle si abbatte l’ira di Putin che fa annunciare ai suoi provvedimenti durissimi di ritorsione per la fuga verso Occidente: innalzamento delle tariffe doganali e del gas, tagli dei finanziamenti, forse pure un irrigidimento dei controlli di frontiera. E fa dire al fido premier Medvedev: «Al governo di Kiev ci sono terroristi con il kalashnikov in mano e il cappuccio sul volto». Quello dell’amico nemico russo è un incubo antico che si risveglia di colpo tra la gente della Majdan. Si favoleggia di manovre militari russe al confine, di movimenti minacciosi della flotta nel Mar Nero e le smentite di Mosca non tranquillizzano nessuno.

Si segue con apprensione la fuga di Yanukovich come se il suo arresto potesse chiudere almeno una parte di una vicenda interminabile. In meno di due giorni, giudici e poliziotti, ora coordinati da un neo procuratore generale dell’estrema destra nazionalista, hanno trovato prove che dicono inoppugnabili delle sue responsabilità. Individuati almeno 50 tra agenti e funzionari che avrebbero distribuito l’ordine scritto (ma prudentemente non firmato) del presidente di «riportare con tutti i mezzi l’ordine a Kiev», scatenando così i cecchini che sparavano dai tetti. La caccia all’uomo distoglie solo per un po’ dalle altre paure più concrete. Anche Ue e Usa sembrano meno disponibili di quanto la piazza si aspettasse. Catherine Ashton capo della Diplomazia europea, arrivata ieri mattina, ha offerto impegno e solidarietà ma difficilmente potrà garantire le cifre richieste da Kiev. Gli Stati Uniti, che oggi inviano il vicesegretario di Stato William Burns, lanciano segnali difficili da decifrare. Il portavoce della Casa Bianca chiede infatti «un governo tecnico che faccia transitare il Paese fino alle elezioni del 25 maggio». E non si esprime affatto sulla legittimità di un governo che nascerà sull’onda di un ribaltamento del Parlamento dopo i fatti di piazza. Basterà oggi la nomina di Arsenij Jatsenjuk, numero due di Yiulia Timoshenko a rendere il governo rivoluzionario attendibile? Lei si prepara a partecipare al congresso del Ppe a Dublino in marzo e a giocare le sue carte di personale prestigio internazionale. Per strada si comincia a temere che la crisi sarà ancora lunga e buia.




Del 25/02/2014, pag. 15



L’analisi

Ma ora l’Ucraina rischia la bancarotta il Cremlino vuole strangolare l’ex alleato

Stop a tutti i finanziamenti. Richiesta a Europa e Fmi: 35 miliardi

NICOLA LOMBARDOZZI

DAL NOSTRO INVIATO

KIEV — Forse l’Ucraina è perduta ma si può ancora strangolarla economicamente, fare un ultimo tentativo di dividerla, quantomeno di piegarla, alzando sempre più il “prezzo del tradimento”. Archiviate trionfalmente le Olimpiadi di Sochi, Vladimir Putin scatena la controffensiva contro il Parlamento rivoluzionario venuto fuori dalla Majdan e punta al disastro economico di Kiev, giocando sulle inevitabili lentezze e titubanze dell’Occidente in difficoltà davanti a un Paese che rischia la bancarotta e che, per bocca del neo ministro delle Finanze a interim, chiede a Ue e Fondo Monetario Internazionale aiuti immediati per 35 miliardi di dollari e l’organizzazione al più presto di una conferenza internazionale di donatori. L’Fmi prevede al massimo un contributo di venti miliardi. Kiev comincia a preoccuparsi e Mosca prova ad approfittarne, minacciano indirettamente anche molti Paesi europei, Italia compresa, che ricevono attraverso i gasdotti ucraini le vitali forniture di gas importate dalla Russia. Le cannonate virtuali di questa nuova versione tutta economica della Guerra Fredda, vengono sparate da Dmitrj Medvedev, ex presidente e adesso premier di Russia, abilissimo nell’usare i toni forti quando Putin lo richiede: «In Ucraina è in atto una minaccia diretta ai nostri interessi e alla incolumità dei cittadini russi», dice lasciando inquietanti porte aperte a possibili interventi non solo diplomatici. Attacca il «nuovo potere illegittimo con organi istituzionali che lasciano forti dubbi». E soprattutto definisce «un’aberrazione il riconoscimento da parte di Ue e Stati Uniti di un governo fatto di gente che gira per strada con le armi in pugno e con il volto mascherato».

E dopo una salva, senza precedenti recenti nei rapporti tra i due blocchi di una volta, arriva, ancora più efficace, la raffica di dettagli minacciosi annunciati dal ministro degli esteri Sergej Lavrov e da quello delle Finanze Anton Siluanov. Uscendo dall’orbita di Mosca e dal sogno putiniano di mettere l’Ucraina al centro di quella Unione Doganale che doveva in qualche modo riunire le ex repubbliche sovietiche, Kiev dovrà rinunciare ai favorevoli dazi doganali di cui ha goduto finora; perderà quasi tutti gli aiuti promessi di 15 miliardi di dollari già pronti da tempo e congelati in extremis prima del weekend fatale. E soprattutto dovrà aspettarsi un immediato rincaro delle tariffe del gas che spesso sono servite per gestire i tentativi di insubordinazione degli alleati più riottosi. E si riapre il discorso anche sulla costruzione di vere frontiere, mai esistite nella storia di due paesi gemelli come Russia e Ucraina, con tanto di visti e di chek point armati. Misure già minacciate prima della marcia indietro pro Russia di Yanukovich che diede il via alla protesta della Majdan. E che colpiranno per primi imprenditori e lavoratori della Ucraina orientale russofona e in parte già ostile a quello che molti definiscono “un golpe” anche in varie manifestazioni di piazza a Kharkiv, Odessa, Sebastopoli.

Difficile che il Cremlino punti a una scissione vera e propria che al momento appare come una catastrofe per entrambe le parti. Ma le divisioni e il malcontento possono certamente servire a spostare ancora una volta gli equilibri. Con l’interventismo patriottico che la contraddistingue da molto tempo, ci si mette anche la Chiesa di Mosca che ieri ha destituito in tronco il Metropolita di Kiev Vladimir. Aveva invocato il perdono davanti alla gente della Majdan che lo accusava di aver benedetto «la polizia assassina di Yanukovich». Il nuovo metropolita Onofrio, fedelissimo del Patriarca di Mosca, controllerà le chiese di sua competenza soprattutto nell’Ucraina dell’Est. Si prevedono prediche e condanne contro i ribelli di Kiev. Ma l’offensiva di Putin riguarda anche il settore interno. Preoccupato com’è di ogni forma di dissenso, aveva fatto rinviare a subito dopo le Olimpiadi la sentenza sugli scontri di piazza di due anni fa, tra polizia a manifestanti a Mosca. È finita con condanne durissime, ma soprattutto con una maxi retata di

oppositori che protestavano davanti al tribunale: le due Pussy Riot graziate alla vigilia di Sochi, i soliti nomi della protesta e l’odiato nemico Aleksej Navalnyj che ora rischia di perdere il beneficio della condizionale su una condanna pregressa a tre anni di carcere e uscire così definitivamente dalla scena politica. Rivoluzioni o semplici proteste che siano, Mosca è tornata a giocare duro.



Del 25/02/2014, pag. 13



Gas, affari e tradimenti

Maidan non si fida più dell’eroina “arancione”

La mitica treccia bionda appiccicata sui capelli ormai ridiventati scuri dopo mesi di carcere è stata forse il segno più eloquente di quanto Yulia Timoshenko fosse impreparata a tornare in libertà e in politica. Con la sua mente lucida e la volontà di ferro, la detenuta politica simbolo del regime di Yanukovich sicuramente si era prefigurata diversi scenari, trionfali, del suo ritorno. Ma la prima sorpresa l’aspettava già sul Maidan, la piazza di cui era stata eroina 10 anni fa. La sua berlina nera è stata fermata dal servizio d’ordine dei manifestanti: dobbiamo controllare l’auto. Al Maidan si arriva a piedi, attraversando barricate. Per Yulia, nonostante fosse in sedia a rotelle, non sono state fatte eccezioni: «I vecchi tempi sono finiti, per tutti», ha borbottato uno dei rivoluzionari perquisendo l’auto. I «vecchi tempi», quelli di Yanukovich ma anche di Timoshenko, gli anni delle faide, dei clan oligarchici contrapposti, dei cambi di schieramento, di incriminazioni clamorose, intercettazioni, colpi bassi. La «principessa del gas» è stata indagata e incarcerata diverse volte. Salvo l’ultima accusa, che le è valsa sette anni e che è considerata sia in Ucraina che in Europa un pretesto per la vendetta diYanukovich, le altre (un ricco assortimento tra tangenti, evasione fiscale, frode e abuso d’ufficio) sono tutte cadute. Ma non è tanto un problema di ricchezze illecite: dopo gli sfarzi del clan Yanukovich eventuali trucchi di Yulia di 10 anni fa non fanno troppo scalpore. La donna che ha animato la piazza della rivoluzione arancione è considerata da molti anche colei che l’ha affossata. Dopo appena sette mesi come premier sotto il presidente Viktor Yushenko, portato al potere da lei, si è dimessa. Intelligente, decisa, carismatica, appassionata, si è rivelata però anche radicale e spericolata, pronta a sconfinare e a rompere patti, tra rischiose privatizzazioni e abile populismo. L’ex alleato la accusò di approfittare dei suoi poteri per sgravare dai debiti la sua ex società energetica. L’odio con Yushenko è arrivato a un punto tale che testimoniò contro di lei al processo. Finora è sempre riuscita a risorgere, a uscire dalla galera, a farsi scagionare, a rivincere le elezioni. Ma forse è proprio questa sua abilità che spaventa il popolo del Maidan-2, rigoroso come ogni rivoluzione fresca di poche ore. «Yulia libera ma non potente», scandivano sul Maidan, e questa filastrocca riecheggia in quasi tutti i commenti di media e politologi. Proprio adesso che, dopo averla odiata e temuta Mosca la considera il male minore, il suo Paese la ama ma non la vuole più. «Faccia il simbolo nazionale, prenda la presidenza del suo partito, stia in parlamento, ma lasci ad altri la guida del Paese », è il senso un po’ di tutti gli editoriali come dei commenti dei militanti. Vincere due rivoluzioni sembra impossibile, perfino per la Timoshenko.



Del 25/02/2014, pag. 16



Il caso

Egitto, i militari “licenziano” il governo

Si chiude l’era Beblawi. Alle presidenziali strada in discesa per Al Sisi

FABIO SCUTO

DAL NOSTRO CORRISPONDENTE

GERUSALEMME — Sono bastati quindici minuti per “licenziare” il premier egiziano Hazem al-Beblawi, l’economista messo alla testa del governo dai militari subito dopo la destituzione, la scorsa estate, del presidente islamista Mohammed Morsi. Tanto infatti è durata la riunione del consiglio del ministri ieri mattina. Beblawi ha annunciato il suo ritiro dagli schermi della tv di Stato egiziana pochi minuti più tardi. Non sono state delle dimissioni a sorpresa, lo scioglimento del governo era un passo quasi obbligato per spianare la strada alle presidenziali del generale Mohammed Abdel Fattah al Sisi, capo delle Forze armate e ministro della Difesa. Ma è anche vero che l’Egitto da settimane è scosso da scioperi che in diverse zone hanno paralizzato le principali attività economiche, i trasporti pubblici e la sanità. Negli ultimi giorni, inoltre, è mancato anche il gas da cucina. Ancora più allarmanti gli scioperi nelle grandi fabbriche tessili di Mahallah, distretto industriale del Delta del Nilo dove viene filato quasi tutto il cotone prodotto nel Paese. Trentamila operai tessili hanno incrociato le braccia per chiedere che il loro stipendio venga equiparato a quello dei dipendenti pubblici (le fabbriche sono di società statali) che è stato alzato a gennaio a 172 dollari. Mahallah è importante perché già nel 2008 si ribellò a Mubarak ed è da lì che nel 2011 iniziò la protesta poi sfociata nella rivoluzione di Piazza

Tahrir. E ancora nell’estate del 2013 sempre da lì sono partite le manifestazioni contro la Fratellanza musulmana che portarono alla caduta di Morsi. El-Beblawi è stato spesso bersagliato da giornali e tv per l’indecisione e l’incapacità di introdurre rimedi efficaci alle difficoltà economiche dell’Egitto. Ma l'obiettivo dello scioglimento del governo è anche quello di preparare il terreno per il generale al Sisi e favorire la sua corsa alle elezioni presidenziali. La sua candidatura è stata ampiamente anticipata, ma finora mai ufficializzata. La decisione di sciogliere il governo sarebbe stata presa direttamente dal generale. Dall'annuncio dato in tv non risulta chiaro se El-Beblawi manterrà il ruolo di primo ministro o lo cederà, ma stando al quotidiano Al- Ahramil presidente ad interim Adly Mansour potrebbe dare l’incarico all’ex ministro dell’Edilizia Ibrahim Mahlab. L'Egitto non si sta muovendo verso un governo democratico accusa Hala Shukrallah, nuova leader del Constitution Party, prima donna eletta alla guida di un partito in Egitto. Le autorità militari egiziane hanno scarsa tolleranza nei confronti del dissenso, ha detto la 59enne sociologa, cristiana copta, e «si sta compromettendo la road map verso la democrazia». Shukrallah, ha sostituito Mohamed El Baradei, il premio Nobel ed ex vice presidente ad interim che si è dimesso la scorsa estate dopo la dura repressione delle proteste contro la deposizione di Morsi.



Del 25/02/2014, pag. 13



E Israele invia un team in soccorso degli ebrei

Israele teme il rafforzamento dell’estrema destra in Ucraina e invia a Kiev dei «team di emergenza» il cui compito è di aiutare le locali comunità ebraiche a valutare i «rischi per la sicurezza» e adottare le necessarie contromisure, inclusa l’emigrazione. Per comprendere l’entità dei timori che circolano nello Stato ebraico bisogna entrare nel pub «Putin» su Jafo Street, nel centro della città, dove la maggioranza degli avventori sono di origine russa e condividono l’allarme lanciato da Inna Rogatchi, una ricercatrice sull’«Olocausto nei tempi moderni» che ha soggiornato a Kiev negli ultimi due mesi arrivando alla conclusione che «il partito neonazista Svoboda è un incubo per l’Europa » ed è uscito rafforzato dal rovesciamento del presidente filo-russo Viktor Yanukovich. Sebbene il governo Netanyahu eviti dichiarazioni ufficiali in merito, le preoccupazioni di Gerusalemme riguardano il fatto che «Svoboda» (Libertà) oltre ad avere il 10 per cento dei seggi nel Parlamento ha alle spalle una ventina di formazioni di estrema destra che, nel complesso, arrivano a rappresentare circa il 20 per cento di una popolazione di 46 milioni di abitanti. Da qui la decisione di Nathan Sharansky, presidente dell’Agenzia Ebraica, di iniziare un’operazione di «assistenza di emergenza» per la comunità ebraica ucraina stimata in 200 mila anime rispetto alle 70 mila di cui parlano le statistiche di Kiev. La maggior parte degli ebrei ucraini vive nella capitale, a Odessa, Lvov e Dnepropetrovsk ed è qui che Sharanky - ex leader dell’emigrazione ebraica dall’Urss - ha ordinato di inviare dei «team di emergenza» la cui missione è contattare istituzioni, sinagoghe e centri comunitari per assisterle nel «fronteggiare eventuali pericoli» e, se necessario, aiutare a emigrare in Israele chi volesse farlo. Tale forma di «intervento di emergenza» è stato creato dall’Agenzia Ebraica dopo l’attacco terroristico alla sinagoga di Tolosa nel marzo 2012 - morirono un insegnate e tre alunni - e ha poi contribuito a soccorrere comunità in situazioni di pericolo dalla Grecia all’Argentina ma, come Sharansky ammette, la crisi ucraina ha dimensioni maggiori: «Stiamo parlando di una delle comunità ebraiche più grandi del mondo».



del 24/01/14, pag. 5



Il mondo di Renzi

Sul Medio Oriente posizione identiche alla destra d’Israele

Michele Giorgio

«Te lo dico con sincerità, sul nuovo primo ministro italiano non ho sentito nulla nei circoli politici che frequento per lavoro». Così Shimon Schiffer, pezzo da novanta del quotidiano Yediot Ahronot, ci ha risposto a proposito del giudizio israeliano sull’ascesa di Matteo Renzi alla Presidenza del Consiglio. Nessuna sorpresa. L’Italia contava e conta pochissimo sulla scena mediorientale, anche a casa del piccolo ma potente alleato israeliano. Nonostante gli sforzi degli ultimi governi italiani, di centrodestra e di centrosinistra, per Israele Roma rimane una capitale secondaria. Poco contano le dichiarazioni di circostanza, la realtà è questa. D’altronde perchè Tel Aviv dovrebbe impegnarsi a considerare l’Italia in modo diverso quando l’appoggio pieno e acritico di Roma alle sue politiche è garantito sempre e comunque?

Benyamin Netanyahu si è limitato a una cortese attenzione verso Renzi. L’altra sera il premier israeliano ha avuto una telefonata “molto cordiale”, così è stata descritta, con il neo primo ministro italiano. Si è congratulato, ha invitato Renzi a visitare Israele. Infine la frase dovuta. “L’Italia svolge un ruolo importante a livello internazionale», ha detto non mancando di apprezzare il sostegno di Roma «contro il boicottaggio di Israele». Renzi non ha mai fatto mistero di essere un sostenitore acceso di Israele e tra i suoi principali consiglieri da tempo figura Yoram Gultgend, un economista israeliano naturalizzato italiano divenuto deputato del Pd. Nel 2012 Renzi ebbe modo di far conoscere la sua “visione” del Medio Oriente. «Troppo spesso c’è stato un atteggiamento della sinistra anti-israeliano, inconcepibile e insopportabile», dichiarò il 20 novembre di quell’anno a “Omnibus” su La7, nel pieno dell’offensiva aerea israeliana “Colonna di Difesa” contro Gaza (circa 170 morti, tra i quali decine di civili).

Due giorni dopo, in collegamento telefonico con la “Maratona oratoria per Israele” davanti a Montecitorio, proclamò «Firenze accompagna la vostra maratona e con il suo sindaco è orgogliosa di dirsi oggi amica di Israele». Il 28 novembre, del corso della sfida tv con Bersani, disse di non essere «d’accordo sul fatto che la centralità di tutto sia il conflitto israelo-palestinese». Il problema, aggiunse, «è l’Iran e se non raccogliamo il grido di dolore dei ragazzi di quel Paese, se non risolviamo lì non risolviamo nemmeno la questione tra Israele e Palestina». E’ un punto molto importante. La linea di Renzi coincide con quella della destra israeliana che da tempo ripete che il mondo fa male a concentrarsi sulla irrisolta (da decenni) questione palestinese e sull’espansione delle colonie ebraiche in Cisgiordania e a Gerusalemme est: il problema vero è l’Iran.

Non contento, sempre alla fine del 2012, Renzi decise di contestare la scelta di Mario Monti di dare l’approvazione dell’Italia all’ingresso nell’Onu della Palestina, come stato non membro. Una scelta di campo che suscitò preoccupazione tra palestinesi e arabi in Italia. «Una persona che vuole diventare premier di un Paese mediterraneo come può dichiarare che il popolo palestinese non ha nemmeno il diritto allo status di Paese osservatore dell’Onu?…Non abbiamo bisogno di un premier di questo tipo», commentò Fuad Aodi presidente del Comai, il cartello che raccoglie le comunità del mondo arabo in Italia.

Un anno e mezzo dopo, contro gli auspici di Aodi, Renzi è diventato Presidente del Consiglio e un quotidiano israeliano, Haaretz, due giorni fa ha previsto che il nuovo premier «porterà Roma ancora più vicina a Israele».



del 25/02/14, pag. 17



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