Ufficio dei Referenti per la Formazione Decentrata del Distretto di Brescia Settore Diritto Europeo


Capire il ruolo della responsabilità dello Stato per violazione del diritto dell’Unione europea



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2. Capire il ruolo della responsabilità dello Stato per violazione del diritto dell’Unione europea.

Affrontare il tema, complesso ed indaginoso, della responsabilità dello Stato per violazione del diritto dell’UE significa comprenderne non solo i contenuti e la portata ma, soprattutto, la genesi, la natura e, in definitiva, le ragioni che indussero a suo tempo la Corte di Giustizia a forgiarne l’esistenza stessa.

Sintetizzando al massimo può dirsi, senza tema di smentita, che la responsabilità di cui discutiamo si inscrive fra i rimedi che l’ordinamento UE contempla sulla via di una sempre più piena, concreta ed effettiva tutela dei diritti riconosciuti al suo interno ancorchè disciplinati da strumenti normativi che, secondo le regole di quell’ordinamento, non sono idonee ad offrire ai titolari mezzi “diretti” di tutela.

Può ancora dirsi, in seconda approssimazione, che l’evoluzione del dritto comunitario ed eurounitario ha seguito un indirizzo particolarmente attento a rimuovere le ineffettività prodotte dalla particolare conformazione di alcuni strumenti di quel sistema, capaci di operare solo attraverso la cooperazione delle legislazioni dei Paesi membri. A fronte dell’inattività e/o della inesatta cooperazione nella fase discendente, la Corte di Giustizia ha inteso dedicare energie vitali al tema dell’attuazione del diritto dell’Unione.Capitali per comprendere i passaggi seguiti dalla Corte di Lussemburgo rimangono, ad avviso di chi scrive, le Conclusioni dell’Avvocato Generale Bot rese nella Causa C555/07, Kücükdeveci il 7 luglio 2009, ove si osserva che il sistema è tutto costruito su tre “palliativi” rivolti ad arginare gli effetti della mancata cooperazione dello Stato nell’attuazione del diritto comunitario.

Il primo è notoriamente rappresentato dall’interpretazione conforme del diritto interno al diritto comunitario del quale ha diffusamente riferito il Presidente Ondei e che la dottrina ha ormai esaminato in modo organico, completo ed appropriato51.

Tale princìpio esige che i giudici nazionali si adoperino al meglio, nei limiti del loro potere, prendendo in considerazione il diritto interno nel suo insieme ed applicando i metodi di interpretazione riconosciuti da quest’ultimo, al fine di garantire la piena efficacia della direttiva di cui trattasi e di pervenire ad una soluzione conforme allo scopo perseguito da quest’ultima(Corte Giust. nel proc.C378/07, Angelidaki).

Non può qui che accennarsi al terzo palliativo correlato al c.d.effetto di esclusione della norma interna in tutto o in parte contrastante con la direttiva che intende non già dare applicazione alla disposizione dell’Unione, ma soltanto espungere dall’ordinamento nazionale la disposizione che appare in contrasto con la normativa dell’Unione52.

E’ invece qui necessario soffermarsi sul secondo palliativo, appunto rappresentato dalla responsabilità dello Stato per violazione del diritto dell’Unione che, come è noto, surroga la pretesa del titolare per come viene riconosciuta a livello comunitario, riconoscendo una tutela sostitutiva e per ciò stesso non completamente satisfattiva nei casi in cui viene accertato un deficit fra la protezione riconosciuta a livello dell’Unione e tutela apprestata a livello interno dal legislatore, dal giudice e/o dal potere esecutivo.

Dice testualmente Bot che “ Il secondo palliativo all’assenza di effetto diretto orizzontale delle direttive può essere attivato proprio nel caso in cui il risultato prescritto da una direttiva non può essere conseguito mediante interpretazione. Il diritto comunitario impone, infatti, agli Stati membri di risarcire i danni da essi causati ai singoli a causa della mancata attuazione di tale direttiva, purché siano soddisfatte tre condizioni…”.

Quel che qui importa subito osservare è che tale “rimedio” soccorre quando il canone dell’interpretazione conforme non viene ritenuto idoneo allo scopo di conseguire il risultato di una direttiva.

Sul punto, particolarmente nitide appaiono le conclusioni dell’avvocato generale Dámaso Ruiz-Jarabo Colomer presentate il 27 aprile 2004 nelle cause da C-397/01 a C-403/01 Pfeiffer : «Orbene, non posso essere d'accordo neanche con chi sostiene che, in un caso come quello in esame, i singoli possono solo invocare la responsabilità dello Stato per i danni cagionati dall’inadempimento degli obblighi che gli incombono in forza del diritto comunitario, in quanto, nelle intenzioni della Corte, questa soluzione ha carattere sussidiario e nel caso di specie verrebbe in considerazione solo qualora le altre disposizioni nazionali adottate per recepire la direttiva 93/104 non potessero essere interpretate conformemente alla lettera e allo scopo della direttiva medesima».

2.1. La responsabilità dello Stato per violazione del diritto eurounitario:da Francovich a Carbonari.

Solo per sintesi saranno di seguito esposti i principi espressi dalla giurisprudenza di Lussemburgo in tema di illecito dello Stato per violazione del diritto UE, soffermando invece l’analisi su una recente decisione delle Sezioni Unite che tuttavia consente di sviscerare alcuni nodi fondamentali per chi dovesse imbattersi sul tema.

La Corte di giustizia ha più volte avuto modo di chiarire che nel caso in cui il risultato prescritto da una direttiva non può essere conseguito mediante interpretazione, il diritto comunitario – ora eurounitario- impone agli Stati membri di risarcire i danni causati ai singoli dalla mancata attuazione di una direttiva purché siano soddisfatte tre condizioni, vale a dire che:a) la norma violata abbia lo scopo di attribuire diritti a favore dei singoli il cui contenuto possa essere identificato;b) la violazione sia sufficientemente grave;c) esista un nesso di causalità diretta tra la violazione dell'obbligo imposto allo Stato e il danno subito dai soggetti lesi53.

Il che impone, come già ricordato dal collega Ondei, al giudice nazionale di interpretare il proprio diritto nazionale quanto più possibile alla luce della lettera e dello scopo della direttiva onde conseguire il risultato perseguito da quest'ultima.

La Corte eurounitaria, tuttavia, esaminando la nota vicenda dei medici specializzandi, non ha mancato di precisare - Corte giust.CEE 25 febbraio 1999 C-131/97, Annalisa Carbonari e altri, in in Racc.,1999, pag. I-1103 - che, «(...) nell'applicare il diritto nazionale, e in particolare le disposizioni di una legge che - come nella causa a qua - sono state introdotte specificamente al fine di garantire la trasposizione di una direttiva, il giudice nazionale deve interpretare il proprio diritto nazionale alla luce della lettera e dello scopo della direttiva onde conseguire il risultato perseguito da quest'ultima e conformarsi pertanto all'art. 189, terzo comma, del Trattato CE (...)» La Corte ha quindi invitato il giudice del rinvio a «(...) valutare in quale misura l'insieme delle disposizioni nazionali - più in particolare, per il periodo successivo alla loro entrata in vigore, le disposizioni di una legge promulgata al fine di trasporre la direttiva 82/76 - possa essere interpretato, fin dall'entrata in vigore di tali norme, alla luce della lettera e dello scopo della direttiva, al fine di conseguire il risultato da essa voluto» Da qui la necessità che il giudice del rinvio valuti “in quale misura l'insieme delle disposizioni nazionali - più in particolare, per il periodo successivo alla loro entrata in vigore, le disposizioni di una legge promulgata al fine di trasporre la direttiva 82/76 - possa essere interpretato, fin dall'entrata in vigore di tali norme, alla luce della lettera e dello scopo della direttiva, al fine di conseguire il risultato da essa voluto”54.

E’ in questo stesso contesto che il giudice comunitario delimita in modo rigoroso l’eventuale responsabilità dello Stato escludendola quando l’applicazione retroattiva e completa delle misure di attuazione di una direttiva permettono di rimediare alle conseguenze pregiudizievoli della tardiva attuazione55.

L’unica possibilità di profilare la responsabilità dello Stato poteva dunque riguardare l’eventuale pregiudizio, ulteriore, patito dai beneficiari che, malgrado l’applicazione retroattiva, regolare e completa delle misure di attuazione, non avevano comunque potuto fruire per tempo dei vantaggi pecuniari garantiti dalla direttiva.

I principi da ultimo ricordati rappresentano un’evoluzione della giurisprudenza comunitaria rispetto ai principi espressi dalla sentenza Francovich56.

Ed invero, in quella occasione il giudice del rinvio aveva proposto una serie di quesiti volti ad acclarare l’efficacia immediata “verticale” – o meno - della dir.80/987/CEE relativa al ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di tutela dei lavoratori in caso di insolvenza del datore di lavoro, non attuata dall’ordinamento italiano.

Venivano poste in modo piuttosto chiaro le base per l’affermazione del principio dell’alternatività del rimedio risarcitorio rispetto all’ipotesi dell’efficacia diretta della direttiva sufficientemente precisa ed incondizionata.

In particolare, giova ricordare che la dir. 80/987/CEE imponeva agli Stati membri la creazione di fondi di garanzia tenuti a versare parte delle retribuzioni non recuperabili attraverso gli ordinari strumenti volti alla tutela del credito retributivo.

Orbene, il giudice rimettente italiano aveva chiesto di sapere se le norme che individuavano la garanzia minima desumibili dalla direttiva fossero sufficientemente chiare ed incondizionate ovvero se era possibile “rivendicare il risarcimento dei danni subiti relativamente alle disposizioni che non godono di tale prerogativa”.

La Corte ritenne che la garanzia fissata dalla direttiva in favore dei lavoratori fosse sufficientemente precisa ed incondizionata quanto alla determinazione dei beneficiari ed al suo contenuto minimo. Era invece l’identità del soggetto tenuto alla prestazione che invece non era da ritenere preciso e determinato, essendo rimessa allo Stato membro la scelta dell’organizzazione finanziaria del fondo di garanzia.

Secondo la Corte, pertanto, la direttiva non poteva operare per effetto della mancata attuazione della stessa ad opera dello Stato italiano che non consentiva di individuare il soggetto obbligato nei confronti del lavoratore.Da qui, l’affermazione di responsabilità dello Stato chiamato a risarcire i danni dei singoli lavoratori per non avere potuto godere delle erogazioni parzialmente compensative dell’insolvenza del datore di lavoro.

Nelle sentenze Carbonari e Gozzo, per converso, il limite della responsabilità dello Stato viene ridotto nel senso che l’eventuale attuazione tardiva della norma comunitaria da parte dello Stato membro può consentire al giudice nazionale di dare attuazione al diritto comunitario interpretando retroattivamente la norma di recepimento. La Corte, con tali decisioni, sembra mettere a frutto gli insegnamenti precedentemente espressi ancora a proposito del tardivo recepimento italiano della dir.80/987/CEE, trasposta solo con il d.lgs.27 gennaio 1992 n.80.

Già nella sentenza Bonifici,Palmisano e Maso57, la Corte aveva dichiarato che l'applicazione retroattiva e completa delle misure di attuazione di una direttiva permette di rimediare alle conseguenze pregiudizievoli della tardiva attuazione di tale direttiva, a condizione che la direttiva stessa sia stata regolarmente recepita.

Il che val quanto dire che non si profila più la responsabilità dello Stato, se non per il caso in cui i beneficiari dimostrino l'esistenza di danni ulteriori da essi eventualmente subiti per non aver potuto fruire a suo tempo dei vantaggi pecuniari garantiti dalla direttiva e che dovrebbero quindi essere anch'essi risarciti.

A questa precisazione, di particolare rilievo, se ne aggiunge un’altra, già espressa nella sentenza Francovich.

Ed infatti, un diritto al risarcimento del danno nei confronti dello Stato esige che il risultato prescritto dalla direttiva implichi l’attribuzione di diritti in favore dei singoli, il cui contenuto possa essere individuato sulla sola base delle disposizioni della direttiva58.

Il che val quanto dire che vi è una incompatibilità di fondo tra un rimedio che, all’interno dello Stato, consente al beneficiario di ottenere la soddisfazione dell’interesse tutelato dal diritto comunitario – anche attraverso una norma di trasposizione tardiva- e l’azione risarcitoria, avente valenza residuale, sperimentabile solo quando non vi è alcuna altra possibilità di tutela e, per altro verso, la normativa comunitaria – e solo quella - consente il riconoscimento preciso del diritto reclamato.

In buona sostanza, la massima che pare possibile astrarre dalla pronunzie della Corte di giustizia in tema di responsabilità per violazione del diritto comunitario pone una netta divaricazione fra i poteri del giudice nell’ambito della corretta applicazione del diritto comunitario e quelli che lo stesso deve svolgere ove sia chiamato a condannare lo Stato per violazione del diritto comunitario.

Mentre nella prima ipotesi – interpretazione conforme- vengono riconosciuti all’autorità giudiziaria degli ambiti operativi estremamente ampi, proprio in ragione dell’obbligo, incombente su tutti i soggetti tenuti all’applicazione del diritto UE, di adottare i provvedimenti generali e particolari atti a garantire il rispetto delle norme dei Trattati, estremamente ristretti appaiono i margini del sindacato giurisdizionale nei confronti della condotta inadempiente dello Stato che condurranno il giudice ad acclarare la condotta illecita nella ricorrenza dei rigorosi requisiti rappresentati dalla tardiva e/o incompleta attuazione della direttiva comunitaria integrante una grave violazione, dall’esistenza di un diritto individuato in base al solo diritto comunitario e del nesso eziologico.

Tale ricostruzione, del resto, appare assai logica nella visione della Corte che, introducendo la responsabilità dello Stato, aveva avuto come obiettivo principale non certo quello di instillare all’interno dei singoli ordinamenti una quanto meno inusuale contesa fra poteri istituzionali-legislativo e giurisdizionale-, quanto piuttosto quello di favorire in ogni modo l’applicazione corretta del diritto comunitario, anche a costo di sanzionare la condotta dello Stato inadempiente vuoi con la ben nota procedura di infrazione, vuoi con meccanismi di prossimità esperibili direttamente dal cittadino.

Ed è ben chiaro che le linee interpretative della Corte di Lussemburgo confermano quella linea di pensiero sempre più favorevole ad implementare le ipotesi di immediata efficacia delle direttive comunitarie fino al punto di pervenire ad una sostanziale assimilazione di tale strumento normativo ai regolamenti.

In questa direzione si coglie la portata del principio che riconosce al giudice nazionale il potere di dare applicazione alla normativa eurounitaria alla luce della normativa interna successivamente introdotta fino al punto da provocarne una sua applicazione retroattiva, resa necessaria proprio per evitare la disapplicazione della stessa per contrasto con la norma comunitaria.

Correttamente la dottrina (Ruvolo, cit.) osserva dunque che “la Corte di giustizia considera ormai del tutto sussidiario il rimedio della responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario, prediligendo invece un meccanismo interpretativo che fornisca direttamente al destinatario della direttiva una tutela pienamente satisfattiva.”


2.2. Cass.S.U.9147/2009 in tema di specializzandi.Una sentenza da non dimenticare quanto alla natura della responsabilità dello Stato per violazione del diritto UE

La sentenza resa dalle Sezioni Unite nell’aprile 2009- Cass. S.U. 9147/09- (poi seguita da numerose altre pronunzie del giudice di legittimità anche in tema di c.d. specializzandi), si diceva, merita di essere esaminata autonomamente.

E ciò non tanto per la soluzione finale cui la stessa è giunta- commendevole se si orienta l’analisi sposando la posizione dei medici specializzandi che lamentavano di avere subito un torto e, dunque, in termini sostanziali adeguata all’affermazione di giustizia in favore di chi si era visto negare a livello nazionale il riconoscimento di un diritto alla retribuzione incondizionato e preciso quanto all’esistenza, ma indeterminato quanto all’individuazione del debitore tenuto a versare la remunerazione adeguata ed all'importo - quanto per le ricadute di sistema che da tale pronunzia potrebbero derivare sia in ordine al tema dei rapporti tra ordinamento interno e diritto comunitario che su territori “limitrofi” che le Sezioni Unite non hanno mostrato minimamente di considerare e che, invece, avrebbero forse imposto un’analisi forse più completa del fenomeno (di matrice giurisprudenziale) della responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario per come declinato dalla Corte di Giustizia.

Si cercherà quindi di esporre, in modo sintetico, le ragioni che portano a non condividere la posizione espressa dal giudice di legittimità, rimandando a precedenti approfondimenti sul tema, controverso, della mancata attuazione della direttiva comunitaria che prevedeva la remunerazione dei medici specializzandi59.

Poco dunque resterà da dire specificamente sull’ opposta condivisibile scelta resa dalla pronunzia del Tribunale di Catanzaro che pure si riporta, le cui posizioni, favorevoli alla qualificazione in termini di illecito extracontrattuale dell’illecito comunitario appaiono infatti pienamente conformi a quanto si andrà dicendo nel prosieguo.
2.2.1. Alla ricerca di un distinguishing problematico nell’illecito comunitario.

La sentenza delle Sezioni Unite muove da un postulato, espresso al punto 4.6 della motivazione, rappresentato dal fatto che <>.

Da ciò fa discendere la necessità di dare continuità ad un indirizzo giurisprudenziale minoritario emerso nella giurisprudenza di legittimità secondo il quale, invece di qualificare la responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario in termini di illiceità, << i profili sostanziali della tutela apprestata dal diritto comunitario inducono a reperire gli strumenti utilizzabili nel diritto interno fuori dallo schema della responsabilità civile extracontrattuale e in quello dell’obbligazione ex lege dello Stato inadempiente, di natura indennitaria per attività antigiuridica, che il giudice deve determinare in base ai presupposti oggettivi sopra indicati, in modo che sia idonea a porre riparo effettivo ed adeguato al pregiudizio subito dal singolo>>.

In effetti, il reticolato motivazionale espresso dalle Sezioni Unite si risolve nella riproposizione, per larghi tratti testuale, delle ragioni esposte da Cass.n.9739/05- riportata integralmente nei punti 8 e 9- e da Cass.10617/07 - che indussero la Cassazione ad escludere la natutra illecita della responsabilità di cui si discute.

Di ciò vi è conferma testuale nel punto 4.5 della motivazione, ove la Corte, nel ricordare l’esistenza di un orientamento che riconduce “con assoluta prevalenza” il c.d. illecito del legislatore alla fattispecie di cui all’art.2043 c.c., dava invece conto del “minoritario indirizzo” che era favorevole alla natura indennitaria “in base alla considerazione che, stante il carattere autonomo e distinto tra i due ordinamenti, comunitario e interno, il comportamento del legislatore è suscettibile di essere qualificato come antigiuridico nell’ambito dell’ordinamento comunitario, ma non alla stregua dell’ordinamento interno, secondo principi fondamentali che risultano evidenti nella stessa Costituzione>>.

E’ vero, infatti, che dopo il punto 4.5 le Sezioni Unite hanno dedicato un ampio paragrafo ai principi fissati dalla Corte di Giustizia in materia.Tali principi, tuttavia, nulla aggiungono alla tesi espressa dalla Cassazione che, come si è detto, al punto 4.8 si è riportata integralmente all’indirizzo minoritario, soltanto aggiungendo che la conclusione espressa sarebbe coerente con i casi in cui il legislatore interno decide di regolare normativamente le conseguenze della violazione del diritto comunitario per fatto del legislatore.

Le Sezioni Unite non riportano, invece, il passo di Cass.n.10617/05 nel quale la Sezione Lavoro della Corte riteneva che “…Le norme della Costituzione, nel dettare le norme fondamentali sull'organizzazione e il funzionamento dello Stato, regolano la funzione legislativa, ripartendola tra il Governo e il Parlamento, quale espressione di potere politico, libero cioè nei fini e sottratto perciò a qualsiasi sindacato giurisdizionale (cfr. art. 31 R.D. 26 giugno 1924 n. 1054, t.u. delle leggi sul Consiglio di Stato). Di fronte all'esercizio del potere politico non sono configurabili situazioni soggettive protette dei singoli (cfr. Cass., sez. un., 8 gennaio 1993 n. 124). Deve perciò escludersi che dalle norme dell'ordinamento comunitario, come interpretate dalla Corte di Giustizia, possa farsi derivare, nell'ordinamento italiano, il diritto soggettivo del singolo all'esercizio del potere legislativo e comunque la qualificazione in termini di illecito, ai sensi dell'art. 2043 c.c., da imputare allo Stato-persona, di quella che è una determinata conformazione dello Stato-ordinamento. Ne discende che, alla stregua dell'ordinamento giuridico italiano, la pretesa dei singoli ad ottenere il risarcimento dei danni che siano stati loro provocati a seguito della mancata attuazione di una direttiva comunitaria, sussistendo le condizioni individuate dalla sentenza della Corte di Giustizia, non può essere altrimenti qualificata che come diritto ad essere indennizzati delle diminuzioni patrimoniali subite in conseguenza dell'esercizio di un potere non sindacabile dalla giurisdizione.”
Affermazioni, quelle appena riportate, non solo state apertamente contestate dalla dottrina, ma anche nettamente contrastanti con i principi affermati dalla Corte di Giustizia in materia e che finivano per dare linfa alla teoria dualista, in definitiva sfavorevole a riconoscere il “primato” del diritto comunitario sul diritto interno.
2.2.2. Qualche critica a Cass.S.U. n.9147/09.

Poco convincenti appaiono gli argomenti esposti dalle Sezioni Unite.

V’è anzitutto da dire che la tesi delle Sezioni Unite sembra contenere elementi di contraddittorietà laddove si afferma, in tesi, che il trattamento giuridico della vicenda “è attratto …nell’ambito di applicazione del diritto comunitario” poi però affermandosi che spetta all’ordinamento nazionale regolamentare le modalità di attuazione della responsabilità posto che l’ordinamento comunitario impone “soltanto il raggiungimento di un determinato risultato”.

Certo, non si può disconoscere la difficoltà di inquadramento di un istituto di creazione giurisprudenziale – qual è appunto quello dell’illecito comunitario- nel quale è stata la stessa Corte di Giustizia a fissare le coordinate ed anche a ritagliare ambiti di operatività riservati al diritto comunitario ed aspetti invece di esclusiva pertinenza del diritto interno.

Specificità e complessità dell’argomento tutta compresa, del resto, nella felice espressione di “illecito interfacciale” cara ad Enrico Scoditti60 proprio per sottolineare che tale fenomeno non è né compiutamente comunitario, né compiutamente nazionale, lo stesso vivendo attraverso il reciproco riconoscimento operato da queste due fonti interconnesse.

Né può sottacersi che le difficoltà di inquadramento sistematico aumentano se si passa a ricercare il fondamento normativo della disciplina interna che il singolo Stato, secondo il noto principio dell’autonomia procedurale, ha il potere di adottare ed adattare per tracciare le modalità concrete di attuazione del diritto di matrice comunitaria.

E’ in effetti arduo chiarire se esiste, dunque, un netto discrimen fra ciò che di “comunitario” vi è nella responsabilità di cui si discute e ciò che invece attiene all’ambito riservato ai singoli Stati.

In verità, l’analisi della giurisprudenza della Corte comunitaria sembrerebbe indurre ad una netta demarcazione fra ciò che è comunitario e ciò che non rientra nel perimetro del sistema sovranazionale per rimanere riservato agli ordinamenti domestici.

E’ vero, infatti, che tale demarcazione viene edificata sul principio di ordine generale per cui, in mancanza di una disciplina comunitaria, spetta all'ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro designare il giudice competente e stabilire le modalità procedurali dei ricorsi giurisdizionali intesi a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza del diritto comunitario (v. Corte giust. 16 dicembre 1976, Rewe, causa 33/76, Racc. pag. 1989, punto 5; 45/76, Comet, Racc. pag. 2043, punto 13; 27 febbraio 1980, causa 68/79, Just, Racc. pag. 501, punto 25, Francovich e a., cit., punto 42, e 14 dicembre 1995, causa C-312/93, Peterbroeck, Racc. pag. I-4599, punto 12).

Ed è vero che da tale affermazione, anche di recente ribadita dalle sentenze Kobler-Corte Giust.30 settembre 2003- e Traghetti del Mediterraneo –Corte Giust.13 giugno 2006- si fa discendere l’ulteriore corollario secondo il quale il giudice nazionale deve fare riferimento alle regole del diritto interno per la determinazione dell’ entità del risarcimento, la designazione del soggetto passivo dell’ obbligo, l’identificazione della procedura (determinazione del giudice competente, disciplina dei mezzi di ricorso e dei correlativi termini di decadenza), e la fissazione dei termini di prescrizione del diritto all’ indennizzo- salvo a garantire che il sistema rimediale sia improntato al rispetto dei principi -generali dell’ordinamento comunitario- di effettività e non discriminazione.

Sicchè è proprio da questo presupposto che sembra essere partita Cass. S.U. 9147/09 per delineare la “struttura” della responsabilità dello Stato per la non corretta trasposizione di una direttiva comunitaria.

E tuttavia, le “aperture di credito condizionate” che la corte eurounitaria ha inteso riconoscere ai sistemi nazionali non riguardano affatto le “basi” della responsabilità che la Corte di Giustizia ha sempre ricondotto ad un’obbligazione ex delicto direttamente ascrivibile all’ordinamento nazionale, appunto ritenuto responsabile per una specifica inosservanza di norme contenute nei Trattati istitutivi della Comunità.

Fu, infatti, la sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee 19 novembre 1991 (cause riunite C-6-90 e C9-90),Francovich,p.36, a rilevare che era proprio dalla violazione degli art. 5 e 189 del Trattato istitutivo della Comunità, in forza dei quali gli Stati membri sono tenuti ad adottare tutte le misure di carattere generale o particolare atte ad assicurare l'esecuzione dei doveri derivanti del diritto comunitario, che discende l'obbligo dello Stato inadempiente di risarcire il danno subito dai singoli cui l'attuazione della direttiva ha attribuito diritti.

Ed è da ricondurre alle stesse “basi” comunitarie l’affermazione, esplicitata nella sentenza Kobler61- che pure richiama a sostegno le sentenze Brasserie du pêcheur e Factortame-punto 32-, Konle- sent.1° giugno 1999, causa C-302/97, punto 62, e Haim, punto 27 e che, successivamente, sarà richiamata da Corte giust. 16 giugno 2006, C-173/03, Traghetti del Mediterrano, p.30- per cui il principio della responsabilità di uno Stato membro per danni causati ai singoli da violazioni del diritto comunitario ad esso imputabili non solo è inerente al sistema del Trattato, ma ha valore in riferimento a qualsiasi ipotesi di violazione del diritto comunitario commessa da uno Stato membro, qualunque sia l'organo di quest'ultimo la cui azione od omissione ha dato origine alla trasgressione.

Ciò perché “l’obbligo di risarcire i danni causati ai singoli dalle violazioni del diritto comunitario non può dipendere da norme interne sulla ripartizione delle competenze fra i poteri costituzionali” venendo “lo Stato del pari in considerazione nella sua unità senza che rilevi la circostanza che la violazione da cui ha avuto origine il danno sia imputabile al potere legislativo, giudiziario ed esecutivo-cfr. p.32.33 e 34 sent.Brasserie-.

Ed era stato proprio l’avvocato generale a sottolineare nelle conclusioni nella citata causa Brasserie du pêcheur e Factortame, «in Francovich la Corte non si è limitata a lasciare al diritto nazionale di trarre tutte le conseguenze giuridiche della violazione della norma comunitaria, ma ha ritenuto che lo stesso diritto comunitario imponesse allo Stato un obbligo risarcitorio nei confronti del singolo»-p.22-. Inoltre, precisava l’Avvocato Generale Leger nelle conclusioni rese nel caso Kobler, che “questo obbligo risarcitorio costituisce un principio fondamentale del diritto comunitario, fondamentale come quello del primato del diritto comunitario o dell'efficacia diretta. Infatti, così come questi due principi, l'obbligo per lo Stato di risarcire i danni causati ai singoli dalla violazione del diritto comunitario contribuisce a garantire la piena efficacia del diritto comunitario mediante una tutela giurisdizionale effettiva dei diritti che ai singoli derivano dall'ordinamento giuridico comunitario.”-p.34-

La stessa sentenza Kobler ulteriormente chiariva che “…Se nell'ordinamento giuridico internazionale lo Stato, la cui responsabilità sorgerebbe in caso di violazione di un impegno internazionale, viene considerato nella sua unità, senza che rilevi la circostanza che la violazione da cui ha avuto origine il danno sia imputabile al potere legislativo, giudiziario o esecutivo, tale principio deve valere a maggior ragione nell'ordinamento giuridico comunitario, in quanto tutti gli organi dello Stato, ivi compreso il potere legislativo, sono tenuti, nell'espletamento dei loro compiti, all'osservanza delle prescrizioni dettate dal diritto comunitario e idonee a disciplinare direttamente la situazione dei singoli”.

In definitiva, la Corte di Giustizia non ha in alcun modo nascosto il proprio favor per la riconducibilità della violazione del diritto comunitario ad ipotesi di responsabilità da atto illecito, anzi rinvenendo direttamente nel Trattato le norme di riferimento dell’analoga responsabilità della Comunità Europea.

Sul punto, è sufficiente rinviare a quanto affermato da Corte giust. 4 luglio 2000, causa C352/98 P, Bergaderm e Goupil/Commissione62.

In questo senso, non è nemmeno superfluo richiamare Corte giust., 17 aprile 2007, C470/03, A.G.M.-Cos.Met, ove è stato ribadito che “… quando le condizioni cui è soggetto il diritto al risarcimento sono soddisfatte, spetta allo Stato membro riparare il danno provocato, nell’ambito delle norme del diritto nazionale relative alla responsabilità.” L’inciso in corsivo sopra riportato lascia chiaramente fuori dalla regolamentazione riservata ai singoli Stati la qualificazione dei fatti che è stata la Corte di Giustizia a porre sotto lo stigma dell’illecito extracontrattuale e, come tale, assume efficacia vincolante per i Paesi membri, secondo le ordinarie regole di efficacia vigenti per le pronunzie della Corte di Giustizia, potendo però lo Stato applicare la normativa interna applicabile nell’ambito della responsabilità da fatto illecito.

Tale conclusione sembra obbligata se anche si considerano le ragioni che la Corte di Giustizia esplicitò per inquadrare la condotta nello stigma del fatto illecito, appunto direttamente collegate all’esigenza di equiparare quella vicenda alla responsabilità extracontrattuale della Comunità disciplinata dall’art.340 TFUE63-, alla stregua delle quali “l’Unione deve risarcire conformemente ai principi generali comuni ai diritti degli Stati membri i danni cagionati dalle sue istituzioni o dai suoi organi nell’esercizio delle loro funzioni”- in quanto “ la tutela dei diritti attribuiti ai singoli dal diritto comunitario non può variare in funzione della natura, nazionale o comunitaria, dell’organo che ha cagionato il danno-sent.Brasserie, cit.,p.42-.

Deve dunque ricordarsi che la responsabilità extracontrattuale indicata dalla Corte di giustizia a proposito della condotta dello Stato è stata espressamente codificata sulla base di un’interpretazione sistematica dell’art.288 Tr.CE- al quale è subentrato il ricordato art.340 TFUE-, da Corte giust.,12 settembre 2006, causa C-300/04, Eman e Sevinger, in Racc.I-8055 ove si chiarisce che “…Il principio della responsabilità di uno Stato membro per danni causati ai singoli da violazioni del diritto comunitario ad esso imputabili è inerente al sistema del Trattato e uno Stato membro è tenuto a risarcire i danni causati allorché la norma giuridica violata abbia lo scopo di conferire diritti agli individui, la violazione sia sufficientemente qualificata ed esista un nesso causale diretto tra la violazione dell’obbligo posto a carico dello stato e il danno subìto dai soggetti lesi; non si può tuttavia escludere che la responsabilità dello stato possa essere accertata a condizioni meno restrittive sulla base del diritto nazionale; con riserva del diritto al risarcimento che trova direttamente il suo fondamento nel diritto comunitario, nel caso in cui le condizioni indicate al paragrafo precedente siano soddisfatte, è nell’ambito delle norme del diritto nazionale relative alla responsabilità che lo stato è tenuto a riparare le conseguenze del danno provocato, fermo restando che le condizioni stabilite dalle legislazioni nazionali in materia di risarcimento dei danni non possono essere meno favorevoli di quelle che riguardano reclami analoghi di natura interna, e non possono essere congegnate in modo da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile ottenere il risarcimento”.

E non pare potersi revocare in dubbio che quella operata dal giudice comunitario non fu certo scelta casuale, piuttosto riscontrandosi una ben precisa distinzione del giudice comunitario che, nel forgiare l’istituto dell’illecito statale, fece per un verso chiaro ed inequivoco riferimento ad una forma di responsabilità extracontrattuale disegnata su un modello “ unico comunitario” (art.288 tr.CE) sganciato da quello previsto nei singoli ordinamenti – e per questo motivo insensibile a possibili variabili presenti all’interno dei singoli Stati- e correlato indefettibilmente al carattere antigiuridico della condotta e ad un termine di prescrizione già inusitatamente lungo rispetto agli altri ricorsi(Tomac, sub art.268 TFUE, 1961).

D’altra parte, anche a voler ammettere che l’istituto forgiato dalla Corte di giustizia debba necessariamente sorreggersi su un regime interno di responsabilità previsto dai singoli ordinamenti, non pare potersi allo stato disconoscere che proprio gli elementi codificati dalla Corte di Giustizia a proposito dell’illecito comunitario si adeguano perfettamente al quadro della responsabilità extracontrattuale previsto dall’art.2043 c.c. capace, per l’elasticità che lo caratterizza, di costituire adeguato parametro di attuazione, in una logica di cooperazione e non di primato, della “regola” fissata dalla Corte di Giustizia, per come la giurisprudenza comunitaria ha dimostrato con le sentenze Kobler e Traghetti del Mediterraneo.

A ben considerare, infatti, la violazione di una norma attributiva di un diritto che costituisce il punto di partenza dell’illecito comunitario è dato osmotico rispetto all’antigiuridicità che sta alla base della responsabilità extracontrattuale interna. Analogamente, il nesso causale fra violazione e danno costituisce base comune delle due forme di responsabilità- nazionale e comunitaria- mentre l’elemento soggettivo della colpa, come ci era già capitato di osservare discorrendo dell’illecito comunitario ascrivibile al giudice di ultima istanza, è sostanzialmente analogo al canone della “violazione grave e sufficientemente caratterizzata”.

Ora, se sono vere le superiori considerazioni, non pare condivisibile l’opinione di chi intravede nella scelta delle Sezioni Unite una concezione forte del rapporto tra diritto comunitario e diritto interno64.

A sommesso avviso di chi scrive, infatti, la soluzione prospettata dalle Sezioni Unite costituisce, in realtà, riaffermazione della vecchia teoria dualista, perpetuando l’idea di un primato del diritto interno che, certo, ha il pregio, nel caso concreto, di individuare una soluzione più favorevole rispetto a quella che sarebbe derivata se si fosse seguito il canone della responsabilità aquiliana. E tuttavia così facendo il giudice comune non solo viaggia in controtendenza rispetto alle logiche di dialogo e di cooperazione che governano ormai i rapporti fra diritto comunitario e diritto interno65, ma sembra andare oltre l’ambito dell’interpretazione delle norme interne, in definitiva edificando, in assenza di norme giuridiche di riferimento, un sistema di tutela del soggetto colpito da una condotta dello Stato violativa del diritto comunitario “piu’ favorevole” di quello che sarebbe derivato se si fosse applicato l’istituto per come delineato dalla Corte di Giustizia.

In rotta di collisione con le considerazioni appena espresse le S.U., riprendendo le affermazioni espresse da Cass.n.8739/1996 secondo le quali “… stante il carattere autonomo e distinto tra i due ordinamenti, comunitario e interno, il comportamento del legislatore è suscettibile di essere qualificato come antigiuridico nell'ambito dell'ordinamento comunitario, ma non alla stregua dell'ordinamento interno, secondo principi fondamentali che risultano evidenti nella stessa Costituzione”, sembrano dunque propendere verso una ricostruzione della responsabilità dello Stato per atto lecito –rectius non antigiuridico- che non sembra in perfetta simmetria con la giurisprudenza comunitaria sopra richiamata66 rendendo ancora attuali le critiche a suo tempo svolte dalla dottrina avverso l’indirizzo oggi riproposto dalle Sezioni Unite67.

D’altra parte, le Sezioni Unite fondano la conclusione adottata in relazione al “carattere autonomo e distinto tra i due ordinamenti, comunitario e interno”.

Dato, quest’ultimo, che consentirebbe di valutare il comportamento del legislatore come “suscettibile di essere qualificato come antigiuridico nell’ambito dell’ordinamento comunitario, ma non alla stregua dell’ordinamento interno, secondo principi fondamentali che risultano evidenti nella stessa Costituzione”.

Ma a ben considerare proprio tale affermazione sembra collocare Cass. S.U. 9147/09 in un periodo storico ormai superato- e non a caso collegato al risalente indirizzo giurisprudenziale minoritario che la Corte di legittimità decide di riesumare-.

Affermare, infatti, che l’ordinamento interno si delinea come “autonomo e distinto” al dichiarato fine di giustificare la ricostruzione in termini di fatto lecito di una condotta considerata nell’ordinamento comunitario come illecita significa spezzare, pericolosamente, un’evoluzione normativa e giurisprudenziale che, negli anni recenti, si è progressivamente indirizzata verso ben diverse forme di integrazione, sempre più marcate ed incisive.

In questa direzione, il riconoscimento del canone dell’interpretazione conforme al diritto comunitario68-a più riprese propugnato dal giudice comunitario ed ormai recepito dal giudice di legittimità(cfr.tra le ultime, Cass. 20543/2008)- e l’introduzione dell’art.117 1^ comma Cost. e la recente questione pregiudiziale sollevata per la prima volta dalla Corte costituzionale (ord.n.103/2008) appaiono all’osservatore come dati orientati univocamente a realizzare un sostanziale superamento di quella autonomia e separatezza che aveva fatto da sfondo alla nota sentenza Granital e che oggi Cass.S.U. n.9147/09 “resuscita”.

Come è stato osservato69, “se….nella famosa sentenza La Pergola del 1984 (n. 170 del 1984) si parlava di sistemi «configurati come autonomi e distinti, ancorché coordinati, secondo la ripartizione di competenze stabilita e garantita dal Trattato»; e se, nella sentenza n. 389 del 1989 si parlava di «ordinamenti reciprocamente autonomi, ma tra loro coordinati e comunicanti(…)», nell’ordinanza n. 103 del 2008 si fa un ulteriore passo in avanti terminologico, allorquando si dice che l’Italia, ratificando i Trattati comunitari, «è entrata a far parte dell’ordinamento comunitario e cioè di un ordinamento giuridico autonomo, integrato e coordinato con quello interno».”

Ora, proprio la scelta del 2008 di sollevare la questione pregiudiziale operata dalla Corte costituzionale non va riduttivamente interpretata come mera operazione in discontinuità rispetto al passato.

Essa piuttosto si inserisce autorevolmente ed apertamente in quel movimento culturale favorevole a rimodulare i rapporti fra i due sistemi comprimendo la c.d. tesi dualista ed invece spingendo sull’acceleratore dell’integrazione.

Ecco che l’aggiunta degli aggettivi “integrato” e “coordinato” nel tracciato motivazionale dell’ordinanza n.103/08 segna una frattura particolarmente grave fra la sentenza in rassegna e le posizione espresse dal giudice costituzionale che sembra doversi, nell’immediato futuro, rimarginare per mano delle S.U. che hanno già commendevolmente manifestato la capacità di operare dei vistosi revirement.

D’altra parte, che le stesse S.U., in altra occasione, abbiano avuto ben presente l’importanza del principio della coordinazione dei due sistemi, indubbiamente contraria alla scissione che invece la sentenza che si annota sembra voler legittimare, trova conferma in Cass.,S.U. n.30254/08 ove, per riformulare il concetto di giurisdizione alla luce di un’interpretazione costituzionalmente orientata delle norme, i giudici di legittimità richiamarono l’evoluzione nel tempo subita dall’ordinamento ponendo al primo posto fra i fattori qualificanti il rapporto tra diritto comunitario ed ordinamento interno ed il ruolo della giurisdizione nel rendere effettivo il principio del primato del diritto comunitario.

Il che finisce con l’emarginare la presa di posizione in materia di specializzandi espressa dal giudice di legittimità, se ancora si considera che proprio l’impianto motivazionale di Cass.8739/1996,10617/21995 e 7832/1995- richiamate al punto 4.5 da Cass.n.9147/09- si era fondato sulla (postulata) inconciliabilità di una responsabilità da fatto illecito del legislatore in relazione ai canoni costituzionali interni e, quindi, alla libertà dei fini riservata al potere legislativo.

Come si è visto, era stata, appunto la sfortunata70 Cass.n.10617/1995 ad escludere – e non ad ammettere, come sembra voler affermare oggi Cass.S.U. n.9147/09- che dalle norme dell’ordinamento comunitario, come interpretate dalla Corte di giustizia, potesse derivare il diritto soggettivo del singolo all’esercizio del potere legislativo.Affermazione che non rimaneva isolata, se è vero che nel 2003 la Cassazione, proprio richiamando il precedente sull’inconfigurabilità di un diritto soggettivo all’esercizio del potere legislativo quale effetto della normativa comunitaria escludeva, sulla base dello stesso impianto argomentativo espresso dalla sezione lavoro della Cassazione, la risarcibilità del danno derivante dalla mancata attuazione nei termini della direttiva sui contratti negoziati fuori dei locali commerciali71, ponendosi così in controtendenza rispetto a ben più conviventi e persuasive decisioni della Cassazione che avevano espressamente fondato sul paradigma dell’art.2043 c.c. la responsabilità dello Stato per illecito comunitario proprio in materia di specializzandi72 .

Posizioni, queste ultime, che intendevano apertamente disconoscere la vincolatività delle sentenze della Corte di Giustizia e dell’intero “sistema” della responsabilità dello Stato fondato espressamente dalla Corte di Giustizia sul parametro di cui all’art.288 del Trattato.In questo senso è utile rinviare alle perspicue osservazioni critiche già espresse dalla dottrina73.

Nemmeno persuasivo sembra, poi, l’argomento fondato sull’omogeneità di trattamento con le forme in cui il legislatore sia intervenuto successivamente per porre rimedio alla pregressa violazione del diritto comunitario nascente da mancata trasposizione di una direttiva.

A ben considerare, infatti, l’ipotesi richiamata non presenta alcun elemento di omogeneità con quello generale, se è vero che la stessa Corte di Giustizia, proprio esaminando la l.n.80/1992, non ha affatto escluso che il danneggiato potesse agire per ottenere il risarcimento del danno eventualmente non coperto dalla misura fissata a livello normativo-cfr.Corte giust.10 luglio 1997, Bonifaci, Palmisani e Maso-. Il che dimostra come la prospettiva del giudice comunitario muove dalla riconducibilità della fattispecie ad una condotta illecita che merita un’integrale risarcimento.

D’altra parte, non si vuole qui certo negare che sia in corso, da tempo, un avvicinamento della giurisprudenza di legittimità a forme alternative a quella tradizionale fondata sull’art.2043 c.c.In questo senso, potrebbe risultare utile il richiamo a Cass.n.157/0374 ed alla particolare attenzione ivi serbata alla tematica degli effetti del comportamento inosservante degli obblighi assunti dalla p.a. laddove abbia prescelto il modulo convenzionale in sostituzione del sempre più recessivo meccanismo provvedimentale.

Ed invero, l’apertura della Cassazione a forme di responsabilità amministrativa sganciate dall’illecito aquiliano ed invece orientate a fare prevalere gli obblighi comportamentali – e le connesse responsabilità- cui la p.a. è tenuta laddove si avvale di accordi procedimentali, pur non trovando, nella fattispecie concreta, l’aggancio rappresentato dall’art.11 della legge n.241/1990- inapplicabile ratione temporis- evoca il concetto di una responsabilità da contatto75.

Ed è noto come la giurisprudenza di legittimità, soprattutto nella materia della responsabilità professionale, abbia progressivamente sviluppato l’idea che nell’esercizio della funzione pubblica si assiste alla nascita di un rapporto che mette in “contatto” i soggetti (sia pubblici che privati) coinvolti nel procedimento, tenuti a non aggravare ingiustificatamente la posizione della controparte, in assenza di un apprezzabile sacrificio della propria sfera giuridica. In tale prospettiva la figura classica dell’illecito aquiliano non costituirebbe più il paradigma di riferimento, piuttosto preferendosi quello della responsabilità contrattuale, con importanti conseguenze in tema di accertamento della colpa.

Ma questo non significa che il campo dell’illecito comunitario sia da considerare terreno elettivo per eventuali ulteriori approfondimenti di siffatta tematica. In conclusione, la decisione della Corte di Cassazione si discosta significativamente dai paradigmi fissati dalla Corte di Giustizia se è vero che secondo la giurisprudenza risalente e prevalente di quel giudice comunitario .

Se è infatti evidente che la coabitazione in un’unica vicenda di istituti che traggono origini e fondamento in sistemi giuridici diversi mette in crisi la ripartizione netta fra illecito contrattuale ed aquiliano76, non per questo appare possibile un’operazione ermeneutica che trasporta nel campo comunitario elementi eccentrici rispetto al quadro dei principi fissati a livello comunitario, tralasciando quelli che, per converso, sembrano costituire la naturale proiezione dei principi comunitari fissati dalla Corte di Giustizia.

In conclusione, persuasiva appare la ricostruzione del sistema dell’illecito comunitario che in esso intravede “un’ipotesi di illecito che non riceve disciplina esaustiva in sede comunitaria, ma che è destinata ad essere recepita ed adattata nei singoli Stati membri”, poi aggiungendo che “ la dottrina e la giurisprudenza dominante ritengono che l’unico modo in cui l’illecito comunitario può trovare ingresso nel nostro ordinamento, che accoglie un sistema di atipicità dell’illecito, è attraverso l’art.2043 c.c 77.


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