S giovanni bosco


XX. Conquiste dei Romani fuori d’Italia, o la prima Guerra Punica



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XX.
Conquiste dei Romani fuori d’Italia, o la prima Guerra Punica (36).

(Dall’anno 263 all’anno 218 avanti Cristo).

Le conquiste fatte dai Romani nello spazio di cinque secoli erano estese a tutti i paesi d’Italia, così che cinquecento anni dopo la fondazione di Roma erano considerati come i soli padroni della penisola. Ma sebbene essi fossero tenuti pei più prodi di que’ tempi, tuttavia incontravano gravissime difficoltà ad uscire d’Italia, perché affatto inesperti delle cose di mare.

Credo vi farà piacere conoscere il modo con cui si possono fare viaggi lunghissimi sopra il mare, e perciò voglio ingegnarmi di porgervene un’idea. Per camminare sopra il mare si fa uso di vascelli, che rassomigliano a quelle barche le quali vediamo galleggiare sopra i nostri fiumi, ma grossi in modo, che vi si possono formare parecchie camere ove mangiare, dormire e collocare grande quantità di merci. I vascelli hanno lunghe travi, dette alberi, elevate nella parte superiore di essi, ai quali si attaccano pezzi di tela grossa detti vele che gonfiate dal vento fanno con grande velocità camminare le navi, o vascelli, detti anche bastimenti. Per dare movimento alle navi si fa anche uso di remi, che sono fatti a guisa di lunghe stanghe, colle quali i marinai da ciascun lato del naviglio fendono l’acqua e lo spingono avanti. I bastimenti che andavano a vele ed a remi prendevano anticamente il nome dal numero degli ordini dei rematori. Dicevansi pertanto triremi, quadriremi, e fino a settiremi, secondochè avevano tre, quattro o più ordini di rematori. Ogni nave era armata nella parte anteriore di uno sprone di ferro o di rame detto rostro (parola latina che significa becco), il quale nei combattimenti serviva a squarciare con un urto violento le navi nemiche.

Abilissimi nella nautica, vale a dire nell’arte di navigare, erano in quei tempi i Cartaginesi, padroni di quasi tutta la parte dell’Africa bagnata dal Mediterraneo. La loro capitale era Cartagine, fondata due secoli prima di Roma. Ricca, potente, guerriera, floridissima pel suo commercio, per le arti e pei mestieri, posta dirimpetto all’Italia e da essa divisa soltanto per un tratto del Mediterraneo, era considerata quale padrona del mare. I Romani, come già vi ho detto, divenuti padroni dell’Italia, udivano con invidia a parlare della magnificenza di Cartagine e della prodezza dei Cartaginesi, e aspettavano una occasione che servisse di pretesto per condurre le loro legioni contro a quella formidabile rivale. L’occasione non tardò molto a presentarsi.

In Siracusa era salito sul trono un re chiamato Gerone, successore di Dionigi il Tiranno, il cui nome credo non avrete ancora dimenticato. Quel principe avendo mosso guerra ai Mamertini, altro popolo della Sicilia, si unì coi Cartaginesi, padroni della maggior parte di quell’isola. I Mamertini dal canto loro, certi di non poter far fronte a così potenti nemici, fecero ricorso ai Romani. Essi volevano bensì loro accondiscendere, ma non avendo navi non sapevano come spedire soldati in Sicilia. La fortuna venne in loro aiuto. Impadronitisi di una galera dei Cartaginesi, che la tempesta aveva gettata sulle spiagge d’Italia, in poco tempo ad imitazione di quella costrussero cento venti navi, su cui parecchie legioni romane poterono passare lo stretto di Sicilia.

La sorte delle armi fu propizia ai Romani, che, fatti arditi per alcune vittorie riportate per terra sopra i Cartaginesi, allestirono altre navi e li assalirono anche per mare. Il combattimento fu lungo ed accanito, la strage grande da ambe le parti. Finalmente la vittoria fu pei Romani. Duilio, console e generale dell’esercito romano, conseguì gli onori di un trionfo navale, in cui si portarono dinanzi a lui i rostri delle navi prese ai nemici. In memoria di quel trionfo s’innalzò nel foro Romano una colonna detta rostrale perché ornata di rostri di navi.

Animati i Romani da questi prosperi successi, deliberarono di portare le loro armi in Africa. Era questa la prima volta che i Romani uscivano dai confini d’Italia. Capo di quella spedizione era il console Regolo, uomo abile, coraggioso e assai commendato per probità. Egli da prima riportò una strepitosa vittoria sopra i Cartaginesi, loro togliendo più di cento navi, e giunto in Africa, riuscì ad impadronirsi di molte città.

I Cartaginesi vedendosi vinti per mare e per terra chiesero pace; ma Regolo non la voleva concedere se non a durissime condizioni, di che ebbe presto a pentirsi. I Cartaginesi ridotti alla disperazione si accinsero a difendersi con indicibile ardore. Sotto agli ordini di Santippo, generale Spartano di somma capacità, raccolsero grande numero di soldati e soprattutto molti elefanti (poiché l’Africa abbonda di questi animali) con innumerevole cavalleria fatta venire dalla Numidia e dalla Spagna.

Regolo, pieno di baldanza, invece di protrarre l’attacco, volle accettare la battaglia in luogo a lui svantaggioso; perciò l’esercito fu quasi interamente distrutto, egli stesso fatto prigioniero e condotto a Cartagine carico di catene.

Dopo tale sconfitta i Romani non mancarono di fare nuovi tentativi per rifarsi delle loro perdite; ma invano: poiché le cose loro andarono e per mare e per terra di male in peggio. I Cartaginesi lieti di queste prospere imprese, entrarono in isperanza di ottenere la pace dai Romani a condizioni migliori. A questo effetto mandarono a Roma ambasciatori, e con essi lo stesso Regolo già da quattro anni rinchiuso in oscura prigione, persuasi che avrebbe sollecitato il Senato ad accondiscendere; ma con giuramento che, qualora non si fosse venuto ad un accordo, egli sarebbe ritornato a Cartagine.

Giunti gli ambasciatori a Roma furono accolti in Senato; tutti i Senatori erano disposti a dar il loro voto per la pace; soltanto Regolo rinunciando all’utile proprio, pieno di amore di patria, asserì che non dovevasi accettare alcuna condizione di pace, se non quando Cartagine avesse ceduto a Roma.

Il Senato aderì al consiglio di Regolo, ma lo consigliò a non più partire da Roma, perché i Cartaginesi lo avrebbero fatto morire. La moglie, i figliuoli piangenti il supplicavano a non più allontanarsi da loro. Ma egli aveva giurato di ritornare a Cartagine, e preferì di ritornare presso a’ suoi nemici, sebbene fosse certo che gli avrebbero fatto soffrire crudelissimi tormenti, piuttosto che rendersi colpevole di uno spergiuro. Infatti i Cartaginesi, sdegnati perché quella trattazione era tornata inutile, presero Regolo, gli tagliarono la palpebre, lo esposero alla sferza di ardente sole, e per saziare la loro barbarie il posero in una cassa orrida di acute punte di ferro, le quali, ovunque il misero si volgesse, lo trafiggevano; e quivi morì.

Ripresero tosto le armi Cartaginesi e Romani; si combatté con accanimento e con perdite gravissime da ambe le parti, ma da ultimo i Romani prevalsero, e i Cartaginesi chiesero nuovamente la pace. Roma, stanca anch’essa, la concedette alle stesse condizioni già proposte da Regolo, cioè:

1° Che i Cartaginesi pagassero mille talenti d’argento spesi in guerra, e in dieci anni altri duemila e dugento.

2° Sgombrassero da tutta la Sicilia e da tutte le altre isole poste tra l’Italia e l’Africa.

3° Non potessero muovere guerra agli alleati di Roma, né condurre alcun legno da guerra in paese romano.

4° Fossero tostamente spediti a Roma i prigionieri ed i disertori senza verun riscatto.

Cartagine, indebolita come era, accettò queste dure condizioni, e così dopo 24 anni di combattimenti ebbe termine la prima delle tre grandi guerre dei Romani coi Cartaginesi dette Guerre Puniche da un parola latina che vuol dire cartaginesi.

XXI.
Annibale in Italia, o la seconda Guerra Punica (37).

(Dall’anno 218 all’anno 2II avanti Cristo).


Un illustre generale cartaginese di nome Amilcare erasi reso assai celebre nella prima Guerra Punica, ed in parecchi combattimenti era stato vincitore contro ai Romani. Ma in una battaglia navale essendo stato sconfitto, e non potendo immantinenti vendicare l’onor militare, prese un suo figlio ancora fanciullo, chiamato Annibale, il condusse in un tempio, e dinanzi all’altare degli Dei il fece giurare di voler essere nemico dei Romani per tutta la vita. Promessa empia, ma che egli non dimenticò mai finché visse.

Annibale fatto adulto, malgrado la pace conchiusa tra Roma e Cartagine, risolvè di attaccare i Romani, e con un esercito di ben cento cinquanta mila uomini traversò il Mediterraneo, penetrò nella Spagna, assalì e distrusse Sagunto, città alleata dei Romani, e ciò per farsi strada a venire in Italia. Quindi valicò i Pirenei, monti che dividono la Francia dalla Spagna, e si avanzò verso la Gallia Transalpina. Ma giunto appiè delle Alpi, vide che esse innalzavansi ai suoi occhi a guisa di muro altissimo, ove niente altro scorgevasi che neve, ghiaccio, sassi enormi, altezze inaccessibili; nessuna strada, anzi neppur traccia di sentiero. Tutti questi ostacoli non valsero a rallentare il corso di quell’ardito conquistatore. Con grande fatica e con la perdita di trenta mila de’ suoi varcò le Alpi, e come fu sopra una delle più alte cime, donde si potevano vedere le belle e ricche campagne d’Italia, le additò ai suoi soldati. Giunto presso Torino venne a zuffa coi cittadini, cui pienamente sconfisse, distruggendo quasi affatto questa forte città.

Presso al Ticino (fiume che scendendo dalle Alpi passa nel mezzo del Verbano oggi dì Lago Maggiore, e si scarica nel Po vicino a Pavia), in un luogo detto Clastidio ora Casteggio, incontrò il primo esercito romano, guidato dal console Scipione, il quale cercava di porre un argine ai suoi progressi. Scipione fu vinto é ferito, e tutto l’esercito sbaragliato.

Il console Sempronio si arrischiò di tentare nuova battaglia presso la Trebbia, fiume che nasce negli Apennini, e mette nel Po vicino alla città di Piacenza. Colà l’esercito romano, a cagione del luogo svantaggioso, toccò pure una sconfitta ancora più funesta di quella del Ticino. Penetrato Annibale nell’Italia centrale, ebbe a fronte il console Flaminio. Presso al lago Trasimeno, ora lago di Perugia, si diede principio da ambe le parti ad un ferocissimo combattimento, ma nulla poté resistere alle spade cartaginesi. Flaminio cadde morto nella mischia, gli uni incalzati dai nemici si precipitarono nel lago, gli altri, preso il cammino dei monti, ricaddero in mezzo ai Cartaginesi, da cui volevano fuggire. Insomma quasi tutto l’esercito romano perì.

Si accorsero allora i Romani, che queste tre sanguinose sconfitte provenivano da mancanza di abile capitano, e si giudicò che la prudenza del dittatore Fabio Massimo avrebbe potuto riparare le perdite de’ suoi antecessori. Esso fu soprannominato il temporeggiatore, perché solo pose termine alle vittorie di Annibale col tendergli agguati e coll’assalirlo alla spicciolata.

Fabio riuscì a chiudere l’esercito cartaginese in una gola di montagne presso Falerno, città dell’Italia meridionale. Ma Annibale, capitano non meno coraggioso che accorto, seppe trarsi da quel pericolo con uno stratagemma. Fece legare grossi fastelli di sarmenti secchi alle coma di duemila buoi, e appiccatovi il fuoco sul far della notte, cacciò quegli animali verso le alture occupate dai Romani. Costoro, impauriti a tale spettacolo, abbandonarono i loro posti. Annibale colse il momento favorevole, e nel silenzio della oscurità uscì co’ suoi dallo stretto. Al farsi del giorno Fabio non trovò più nemici da combattere.

Annibale, adirato perché perdeva tempo e fatica senza poter venire a campale battaglia, mandò a dire a Fabio: «Se tu sei quel gran capitano, qual si dice, vieni nelle pianure ed accetta la battaglia». Fabio gli fece rispondere: «Se tu sei quel gran capitano, quale ti credi, forzami a darti battaglia».

Mentre da Fabio tenevansi i Cartaginesi a bada, i Romani ebbero tempo di radunare nuove genti e di mettere in piedi un esercito, il quale se fosse stato capitanato da Fabio, avrebbe avuto miglior fortuna. Ma essendo trascorsi i sei mesi della sua dittatura, gli sottentrarono Paolo Emilio, valente capitano, e Varrone, uomo impetuoso e poco esperto di guerra.

Quest’ultimo, insuperbitosi per alcuni vantaggi ottenuti sopra Annibale, gli presentò battaglia in una pianura presso un villaggio detto Canne, dove l’esercito romano fu compiutamente sconfitto. Emilio, ferito nel combattimento, morì poche ore dopo. Varrone dovette la salvezza alla velocità del suo cavallo. Ottanta senatori, grande numero di cavalieri e cinquantamila soldati restarono sul campo.

Un ufficiale di Annibale il consigliava a correre immediatamente su Roma, e come vide rifiutato il suo consiglio, soggiunse: Generale, voi sapete vincere, ma non sapete approfittare della vittoria. Difatto se dopo la sconfitta di Canne Annibale fosse andato a Roma, la guerra sarebbe stata finita, e la potenza dei Romani abbattuta per sempre.

Pervenuta a Roma la notizia del disastro di Canne, la costernazione fu universale: grida e gemiti da tutte parti; niuno sapeva a che partito appigliarsi. In mezzo a questa generale costernazione quel Fabio, che aveva combattuto Annibale con tanto vantaggio, fu il solo che abbia conservato il consueto buon giudizio. Ei convocò i senatori, che il terrore aveva dispersi, e inspirò in tutti tale ardire e tale speranza, che ogni cittadino chiedeva di essere soldato. Si arruolarono anche gli schiavi, cosa sino allora non mai veduta.

Annibale credendo aver fatto abbastanza coll’aver così umiliata e scompigliata la repubblica romana, si arrestò col suo esercito nella città di Capua; dove dandosi co’ suoi soldati. alle delizie ed ai piaceri, passò tutto l’inverno. Quando poi volle riporsi in viaggio e marciare su Roma, si accorse, ma troppo tardi, che i soldati avevano perduto l’abitudine delle fatiche e dei disagi. La qual cosa deve insegnarci che l’ozio trae seco i vizi, e che soltanto un lavoro assiduo rende gli uomini virtuosi, coraggiosi e forti.

Annibale, perduta ogni speranza di poter abbattere Roma, si allontanò da quella città, dopo di averla appena veduta, e pieno di sdegno andò a nascondersi vicino a Taranto, alla estremità dell’Italia.


XXII.
Scipione in Africa e fine della seconda Guerra Punica (38).

(Dall’anno 211 all’anno 200 avanti Cristo).


Roma mancava tuttora di un capitano da mettere a fronte di Annibale, e le perdite dai Romani sofferte si attribuivano all’inabilità dei generali. Un rivale degno di Annibale fu Scipione soprannominato l’Africano per le grandi conquiste da lui fatte nell’ Africa. Alle prerogative di un grande capitano Scipione accoppiava una rara onestà, ed era così affabile e benevolo che vinceva colla dolcezza quelli che non poteva vincere colla forza. Suo padre era stato ucciso dai Cartaginesi nella Spagna, e ciò eragli sprone al coraggio. Emulo del generale Cartaginese, il quale per battere i Romani in Italia aveva cominciato ad assalirli e debellarli nella Spagna, egli pure colà, all’età di soli ventiquattro anni, assalì i Cartaginesi già fattisi padroni di quel vasto regno. Scipione, guidando ogni cosa con prudenza e con valore, sconfisse i Cartaginesi e ridusse la Spagna a provincia romana.

Tornato a Roma e fatto console, per costringere Annibale ad uscire dall’Italia, reputò ottimo consiglio passar coll’armata in Africa e portare lo spavento alle porte di Cartagine nel tempo stesso che essa aveva un esercito vicino a Roma. I Cartaginesi opposero due potenti eserciti a Scipione, il quale colle armi e con istratagemmi pienamente li sconfisse. Quaranta mila Cartaginesi furono uccisi e sei mila fatti prigionieri.

Atterriti da queste vittorie i Cartaginesi richiamarono dall’Italia Annibale, perché venisse a salvare la patria in procinto di cadere in mano dei nemici. È impossibile esprimere il rincrescimento di Annibale a questi ordini della patria. Amaramente pentito di non essere marciato su Roma dopo la battaglia di Canne, versando lacrime di dolore, abbandonò le bellissime contrade d’Italia, che egli colle armi aveva occupato per sedici anni.

Giunto in Africa, alla vista della patria indebolita dalle guerre e atterrita dal nome di Scipione, sebbene avesse in piedi un poderoso esercito, tuttavia chiese un colloquio al generale romano per trattare della pace. Scipione facilmente vi acconsentì, ansioso di vedere quel grande uomo che formava la meraviglia del suo tempo. I due illustri capitani si abboccarono al cospetto de’ due eserciti, e rimasero alquanto in silenzio guardandosi l’un l’altro con iscambievole ammirazione. Annibale parlò per primo, e propose condizioni che Scipione non poté risolversi ad accettare. Si narra che prima di separarsi Scipione dicesse ad Annibale: Chi pensi che sia il più grande capitano finora vissuto?

Annibale rispose: - Alessandro.

- E dopo Alessandro chi è il maggiore?

- Pirro.

- Dopo Pirro?

- Sono io stesso.

- Or che saresti tu se vincessi Scipione?

- Io sarei al di sopra di Alessandro e di Pirro (*).
[(*) ROLLIN, Storia delle quattro Monarchie (a)].
Ciò detto, si separarono per annunziare ai propri soldati che bisognava venire alle mani.

Il giorno seguente si venne a battaglia; i soldati di Annibale fecero prodigi di valore, ma la fortuna aveva voltate le spalle ai Cartaginesi. Il suo esercito fu disfatto intieramente, egli stesso con alcuni cavalieri si ritirò a Cartagine, ove da trentasei anni non aveva più posto piede. Allora i Cartaginesi ridotti alla disperazione chiesero pace al Senato Romano, che la concedette a condizioni ancora più dure di quelle imposte nella prima guerra punica. In questo modo ebbe fine la seconda guerra di questo nome.

Lo sfortunato Annibale, dopo aver sacrificato tutto se stesso al bene della patria, cadde in gelosia, poscia in odio a’ suoi concittadini. Esiliato dall’ingrata sua patria, non avendo più sicura la vita, cercò asilo primieramente presso Antioco, re di Siria e nemico de’ Romani, e quindi presso Prusia, re di Bitinia. Costui ebbe la viltà di proporre ai Romani di dare loro nelle mani un uomo, cui egli aveva promesso di proteggere.

Annibale, saputo quel tradimento, si diè la morte col veleno prima che cadesse nelle mani de’ soldati spediti a catturarlo.

Più avventuroso fu Scipione vincitor di Annibale e domatore di Cartagine. Egli fu ricevuto in Roma cogli onori del trionfo, e per ricordare ai posteri la memoria delle sue grandi vittorie, gli fu dato il soprannome di Scipione Africano.

Questo grand’uomo, dopo avere prestato molti servigi alla patria, passò il resto della vita nell’amore de’ suoi concittadini. Tuttavia egli non poté fuggire l’invidia di alcuni malevoli, che lo costrinsero ad abbandonare la patria. Allora si ritirò con una scelta di amici in una campagna vicino alla città di Linterno, ove attese unicamente alle scienze, che egli aveva sempre coltivate anche in tempo delle sue imprese militari.

Giovani cari, tutti i grandi uomini anche in mezzo alle gravi loro occupazioni attesero colla massima cura allo studio, perché l’uomo costituito in dignità, se è ignorante, per lo più viene disprezzato.


XXIII.
Archimede il Matematico (39).
Mentre infieriva la seconda Guerra Punica, nella città di Siracusa avvenne un fatto che io non voglio passarvi sotto silenzio. Gerone, re di quella città, era morto e alcuni Siracusani avevano ucciso Geronimo suo nipote. Per la qual cosa Siracusa era di nuovo caduta in potere de’ Cartaginesi. I Romani mandarono Marcello per assediarla, e se ne sarebbero prestamente impadroniti ove non fosse stato colà un dotto meccanico di nome Archimede, uomo pregiato in tutta l’antichità, specialmente per lo studio che aveva fatto delle matematiche.

Egli aveva inventato alcune terribili macchine, le quali calando si in mare, a guisa di un grande braccio, levavano in alto una nave, e, rovesciandola come si farebbe di un guscio di noce, la sommergevano. Aveva altresì fabbricato certi specchi detti ustorii, ossia ardenti, coi quali raccogliendo i raggi del sole in un punto e facendoli riflettere sopra le navi degli assedianti, vi appiccava il fuoco anche a grande distanza. Inoltre aveva fatto una sorprendente scoperta, quella cioè di una specie di fuoco, che ardeva nell’acqua, e nulla il poteva smorzare. Finalmente inventò una macchina di considerabile grandezza, con cui si lanciavano pietre, giavellotti, travi, macigni con tanta forza e sì aggiustatamente, che gli assedianti dovevano stare molto lontani dalle mura per non esserne colpiti. In questo modo l’industria di un uomo solo impediva ad un numeroso esercito di entrare in quella città.

Ma tutto questo non poté impedire che fosse presa dopo lungo ed ostinato assedio. I Romani trucidarono barbaramente tutti i Siracusani che caddero nelle loro mani. Marcello, che onorava le scienze, desiderava di salvare Archimede, e raccomandò a’ suoi soldati che si guardassero dal fargli alcun male. Questi durante il saccheggio, mentre la città era tutta a ferro e a fuoco, stava inteso con tutto l’animo a considerare alcune figure di geometria; quando all’improvviso gli si fa innanzi un soldato ordinandogli di seguitarlo e di recarsi dal generale romano. Archimede lo pregò di attendere un istante finché fosse sciolto il suo problema; ma il soldato che non curavasi né di problemi né di figure, interpretò l’indugio di Archimede per un rifiuto, e lo trapassò colla spada.

Un uomo di tanta virtù meritava sorte migliore. Marcello rimase afflittissimo allora che gli fu recato l’annunzio della morte di quel grand’uomo, ed ordinò che gli si facessero magnifici funerali, e gli fosse eretto un monumento.

L’uomo virtuoso è stimato da tutti, anche dai nemici.

XXIV.
Catone il Maggiore. La rovina di Cartagine o la terza Guerra Punica (40).

(Dall’anno 182 all’anno 146 avanti Cristo).


Viveva in quel tempo in Roma un uomo di vita rigida ed austera, di nome Porzio, soprannominato Catone, vale a dire astuto; nome che assai gli conveniva perché era tenuto pel più scaltro degli uomini del suo tempo. Egli coprì le più insigni cariche di Roma, e finalmente fu creato Censore. Questa carica durava cinque anni; l’uffizio annessovi era di tenere il registro de’ cittadini romani, del loro patrimonio, ed inoltre il registro de’ cavalieri e dei senatori. Egli aveva l’autorità di cancellare dal numero dei cavalieri e de’ senatori chi colla condotta si rendeva indegno di quel grado.

Catone, siccome uomo frugale, si opponeva con tutto il rigore al lusso ed alla mollezza, vizi dannosissimi alla società, e che già cominciavano ad introdursi fra i Romani. Egli andava sempre ripetendo che bisognava distruggere Cartagine, altrimenti Roma avrebbe sempre avuto una formidabile rivale. A forza di udire a ripetere questa cosa i Romani si risolvettero di effettuarla, e spedirono in Africa un console di nome Censorino. Questi al suo arrivo comandò ai Cartaginesi che gli dessero in mano trecento personaggi, e gli consegnassero le navi, le spade e gli scudi che si trovavano a Cartagine. I Cartaginesi furono costretti ad accondiscendere, perché non avevano mezzi di sostenere la guerra. Ma quando quel console diede ordine di uscire dalla città, dicendo francamente che era venuto per appiccarvi il fuoco e distruggerla, i Cartaginesi montarono in tanto furore, che risolsero di volersi difendere fino alla morte. Mancava ferro per fabbricar armi; l’oro e l’argento servì loro di materia. I fanciulli lavoravano per aiutar i loro padri, e le donne si tagliavano i capelli a fine di fare corde per le navi che si stavano costruendo. Perciò tutti gli assalti de’ Romani tornavano inutili.

Erano indicibili i gagliardi sforzi degli assedianti, e già i Romani stavano per levare l’assedio, quando venne loro in soccorso il tradimento di un certo Farneade, generale della cavalleria Cartaginese. Questo traditore, adescato dalle promesse del generale romano, mostrò agli assedianti un luogo segreto per entrare nella città. Dopo una resistenza accanita ma inutile, la città intera cadde in potere di Scipione Emiliano, figliuolo adottivo dell’altro Scipione, che allora si trovava alla testa de’ Romani. Abusando della vittoria distrusse la più grande, la più ricca, la più florida delle città, fondata anticamente dai Fenici molti anni prima di Roma. Questa guerra, che finì colla rovina di Cartagine, nella storia è appellata Terza Guerra Punica.

Nello stesso anno, in cui cadde Cartagine, fu pure dai Romani distrutta la città. di Corinto per opera di Mummio, e poco dopo per mano dello stesso Scipione fu incenerita anche quella di Numanzia, che era la città più forte della Spagna, perché aveva seguito il partito dei Cartaginesi.

Intanto le vittorie luminose, che i Romani avevano riportate sopra le più potenti nazioni della terra, traevano in ammirazione i popoli che abitavano in luoghi lontanissimi da Roma; e tutti si davano premura di fare alleanza coi Romani. Lo stesso Giuda Maccabeo, quell’uomo valoroso, di cui lungamente vi parlai nella Storia Sacra, colpito dalle gloriose imprese che i Romani compievano in pace ed in guerra, mandò a Roma due illustri personaggi per con chiudere coi Romani un trattato di amicizia. Giunti in quella metropoli del mondo, furono introdotti nel Senato, dove parlarono così: Giuda Maccabeo, i fratelli suoi ed il popolo Giudaico ci mandarono a stabilire con voi alleanza e pace, affinché ci scriviate tra i vostri alleati ed amici.

Questo discorso semplice ma espressivo piacque al Senato Romano, il quale fece scrivere la risposta sopra tavole di bronzo, Affinché restasse presso a quel popolo in perpetuo monumento di pace e di amicizia. Era del tenore seguente: «Vengano tutti i beni a’ Romani ed alla nazione de’ Giudei per mare e per terra in eterno; le armi nemiche siano sempre da loro lontane. Chi fa guerra a’ Giudei, la fa altresì ai Romani; questi due popoli saranno tra di loro perfetti amici, e si presteranno reciprocamente soccorso qualora ne sia il bisogno».

In questa maniera quel popolo di Dio cominciò ad unirsi ai Romani, coi quali fra poco lo vedremo congiunto per formare un popolo solo con una legge sola, colla medesima religione cristiana.

XXV.
Rivoluzione de’ Gracchi (41).

(Dall’anno 146 all’anno 121 avanti Cristo).


Con grande mio rincrescimento devo ora raccontarvi una guerra, non più de’ Romani con popoli stranieri, ma una guerra civile, cioè tra Romani medesimi.

Questo popolo, non avendo più nazioni potenti da combattere, si diede in preda all’ozio ed ai passatempi. Abbandonata così alla disoccupazione, la plebe cominciava ad invidiare la sorte dei ricchi, desiderosa di porre le mani sopra i loro averi; ciò era un vero ladroneccio, perché colui il quale con giusti mezzi e titoli ha acquistato sostanze, è giusto che se le goda.

Due giovani fratelli, noti sotto il nome di Gracchi, chiamati uno Tiberio, l’altro Caio, diedero mano l’un dopo l’altro ai malcontenti. Cornelia loro madre li amava molto quando erano piccini a cagione della saviezza ed obbedienza loro. Ma fatti adulti, le furono causa di grandi affanni. Tiberio Gracco, divenuto tribuno del popolo, propose la legge agraria, che obbligava i ricchi a dare ai poveri una parte delle loro terre. Dispiacque tale proposta al Senato, che la rifiutò. Ma Tiberio radunò una folla di popolo per eccitarlo alla ribellione. Il console Minuzio Scevola si sforzò invano di calmare gli spiriti. Si venne alle mani e il sangue cittadino scorse per le vie di Roma. Tiberio con più di trecento de’ suoi amici cadde estinto. Fu questa la prima volta che Roma nelle sedizioni interne vide scorrere il sangue de’ suoi figli: trista conseguenza cagionata da chi ricusa sottomettersi al legittimo governo.

Caio Gracco dissimulò qualche tempo il dolore che provava per la morte del fratello, finché, divenuto anch’esso tribuno della plebe, mise in campo le medesime leggi già proposte dal fratello. Perciò egli pure qual ribelle fu condannato a morte, ed a chi gli avesse recisa la testa furono proposte tante libbre di oro, quanto quella ne avrebbe pesato.

A quella notizia Gracco fuggì di Roma; ma vedendosi vicino a cadere nelle mani de’ nemici, si fece uccidere da un suo schiavo. Un uomo avendo trovato il corpo di Gracco ne tagliò la testa, ne trasse le cervella, la empiè di piombo fuso perché pesasse di più, indi la presentò al Senato, e n’ebbe in dono diciassette libbre di oro, senza che fosse scoperto l’inganno.

Così perirono i due Gracchi, i quali sarebbero stati amati come buoni ed onesti giovani, se non avessero voluto conseguire colla forza e colla violenza ciò che un cittadino non deve pretendere.



XXVI.
Guerra Giugurtina. - Mario a Vercelli (42).

(Dall’anno 120 all’anno 100 avanti Cristo).


Vi feci già notare come i Romani non essendosi più occupati con assiduità nell’esercizio delle armi, si erano dati all’avarizia, vizio abbominevole che conduce l’uomo alle più vili azioni. Il Senato romano, già tanto glorioso per la sua probità, degenerò, e giunse fino a vendere la giustizia. Mentre i Romani andavano perdendo l’antico valore, molte nazioni barbare, allettate dalle delizie de’ nostri paesi, partivano da lontane contrade per venire in Italia. Un generale di nome Mario si segnalò in queste guerre contro ai barbari e ridonò non poco splendore al nome romano oscurando poscia con una turpe fine sì grande gloria (43). Di aspetto feroce, alto della persona, bruttissimo nella faccia, era di complessione forte e robusta, siccome quegli che aveva passato la gioventù nei lavori della campagna. Egli erasi già segnalato in parecchie battaglie nella Spagna, e particolarmente nell’Africa in una guerra sostenuta contro un re di Numidia di nome Giugurta, figliuolo adottivo del re precedente. Per giungere al trono costui aveva ucciso un suo cugino e cercava di ucciderne anche un altro che ancora rimaneva. Aderbale (era questo il nome del superstite), vedendo non potersi difendere da tale nemico, implorò l’aiuto del Senato Romano. Il Senato divise il regno tra i due; ma Giugurta macchiandosi di un novello omicidio s’impadronì anche della parte che era stata assegnata ad Aderbale. Allora il Senato gli spedì contro Q. Metello, il quale impadronitosi di gran parte del territorio di Giugurta, lo costrinse a chiedere aiuto a’ popoli vicini. A. Q. Metello nel comando succedette Mario, che dopo fieri combattimenti terminò la guerra mediante il tradimento di Bocco, re di Mauritania, il quale consegnò ai Romani Giugurta suo suocero. Mario in quella guerra diede molte prove di perizia militare e di coraggio; ma le sue prodezze si manifestarono specialmente nella guerra contro ai Cimbri e contro ai Teutoni (Tedeschi), popoli barbari venuti dal settentrione dell’Europa.

Quegli uomini in numero di trecento mila, traendosi dietro su grandi carri i vecchi, le donne ed i fanciulli della loro nazione, cominciarono a spargersi nelle Gallie. Due eserciti Romani ardirono affrontarli, e furono talmente dai barbari disfatti, che questi in un solo giorno diedero alle fiamme le tende dei Romani, trucidarono gli uomini ed i cavalli che vi trovarono. Non conoscendone la preziosità, i barbari gettarono nel Rodano, uno dei fiumi principali delle Gallie, tutto l’oro e l’argento caduto nelle loro mani. Si disponevano a continuare le loro stragi, allorché Mario, altrettanto feroce, ma più perito dei barbari, si avanzò contro di loro fino alle Acque Sestie, oggidì Aix di Provenza. Colà seppe avviluppare così destramente i nemici in una imboscata, che quasi tutti rimasero ivi sepolti.

Questa vittoria procurò la salvezza dell’Italia, e Mario fu eletto console per la quinta volta. Ma i Teutoni erano soltanto vinti per metà; perocchè i Cimbri, forzato il passaggio delle Alpi e cacciatisi innanzi ai Romani, si avanzarono fino a Vercelli, insigne città del Piemonte. Mario vi accorse colle sue genti e si accampò nelle pianure (dette Campi Raudii), che si estendono tra Vercelli ed il Ticino.

I Cimbri, i quali ignoravano ancora la sconfitta dei Teutoni, mandarono deputati al Console, intimandogli di cedere ad essi ed ai loro fratelli alcune terre dell’Italia per istabilirvisi. Quegli ambasciatori a metà nudi, con elmetti in. testa sormontati da penne di pavone, vestiti di pelli, con aspetto feroce al pari delle bestie, cagionarono meraviglia e stupore ai Romani. Mario andò loro incontro e disse: «Chi sono questi vostri fratelli, di cui parlate? - Sono i Teutoni, risposero». Alla quale risposta tutta l’assemblea si mise a ridere. «Non vi date pensiero di loro, disse Mario, essi posseggono la terra, che noi abbiamo loro dato e la occuperanno eternamente».

I deputati, punti da cotale ironia, risposero che si pentirebbe dell’insulto, e che ne sarebbe punito prima dai Cimbri, quindi dai Teutoni, appena che fossero arrivati. «Sono arrivati, soggiunse Mario; eccoli per l’appunto, e prima di partire voglio che li abbracciate e li salutiate». Nello stesso tempo fece condurre al loro cospetto i re Teutoni carichi di catene. A quella vista i legati si ritirarono coperti di confusione.

Tre giorni dopo si appiccò la battaglia, in cui i Cimbri rimasero totalmente disfatti. Ma quando Mario volle impadronirsi dei loro alloggiamenti, li trovò occupati dalle donne barbare. Scorgendo esse i proprii figliuoli in procinto di cader in potere dei vincitori, li strangolarono colle trecce dei loro lunghi capelli; poi vedendo accostarsi i soldati romani, né potendo più combattere, si appiccarono tutte ai timoni dei propri carri, niuna essendovi che volesse sopravvivere alla disfatta della propria nazione. I cani stessi, dopo la morte dei loro padroni, ne difesero i corpi con tanta rabbia, che a fine di evitare i loro morsi fu necessità ucciderli a colpi di freccia. Così l’Italia fu liberata da quell’invasione di barbari, i quali sarebbero stati invincibili, se avessero avuto la disciplina degli eserciti Romani; ma essi sapevano soltanto combattere furiosamente e con coraggio.

Mario ricevette dai Romani i più grandi onori, e fu considerato come un nuovo fondatore di Roma, e il salvatore dell’Italia. Fortunato lui se si fosse dimostrato in pace, quale fu in guerra! Ma egli si lasciò trasportare dalla superbia, la quale è vizio abbominabile che cagiona la rovina degli uomini.

XXVII.
Alleanza degli Italiani contro Roma. - Mario e Silla (44).

(Dall’anno 100 all’anno 88 avanti Cristo).


La distruzione di Cartagine, la sottomissione della Spagna, le conquiste fatte nell’Asia, il dominio esteso sopra tutta l’Italia, la sconfitta data da Mario ai Teutoni ed ai Cimbri lasciarono i Romani senza competitori. Tanta fortuna fece loro presto svanire ogni idea di moderazione e di virtù, ed alla frugalità, alla generosità degli antichi sottentrò la gozzoviglia, l’avarizia, l’oppressione, la tirannia. Tutti coloro che non godevano del diritto di cittadinanza, erano dai Romani tenuti come schiavi.

Il diritto di cittadinanza romana era una qualità di grande pregio. I cittadini erano quelli che nominavano i consoli e gli altri magistrati; niuno poteva condannarli a morte, nemmeno percuoterli con verghe, senza ordine espresso del popolo romano radunato. Questo titolo fece inorgoglire i Romani a segno, che giudicando schiavi gli altri popoli, s’impadronivano dei loro beni; e si giunse fino a stabilire con legge che niun forestiere potesse più fermarsi in Roma. Un’irriverenza, un risentimento verso di un cittadino romano costava talvolta la vita ad un italiano (*).


[(*) Leggasi GIUS. MICALI, L’Italia avanti il dominio dei Romani, vol. II, cap. 18 (a)].
Accadde in quel tempo che tutti i popoli dell’Italia stanchi di tanta oppressione, ricorsero a Roma chiedendo al Senato di poter anch’essi godere del diritto di cittadinanza; poiché essi pure dovevano pagare i tributi e concorrere ai bisogni della guerra con denaro e con soldati. Il Senato rifiutò la dimanda; e questa fu la cagione che da tutte le parti si levasse un grido solo: Alle armi, alle armi! Questa guerra fu detta la guerra sociale, cioè di più popoli uniti insieme. I Marsi furono alla testa della lega, e Pompedio Silone, uomo valorosissimo, fu creato generale in capo delle forze alleate. Il centro dei confederati fu la città di Corfinio, ora S. Pellino; situata tre miglia alla destra del fiume Aterno o Pescara. I Romani, spaventati da questa sollevazione, posero in piedi quante genti poterono, armando ancora grande numero di schiavi, e ricorrendo alle nazioni estere loro amiche.

Fomentavano il timore dei Romani alcuni funesti segni che gli autori antichi riferiscono essersi in quel tempo veduti. Una corona solare comparve subitamente a vista di Roma; il vulcano, che è presso Napoli, fece una straordinaria eruzione, vale a dire mandò fuori una grande quantità di fuoco; i simulacri delle divinità stillarono sudore dal volto; i topi corrosero parecchi scudi d’argento; i cani ulularono a guisa di lupi; l’idrofobia, morbo volgarmente detto rabbia, si spiegò negli armenti; si videro animali a piangere; si udirono voci sotterranee, e simili altre cose, le quali sebbene fossero prive di significato in rapporto alla guerra, tuttavia dai Romani erano avute come indizi di sventure.

Essi tentarono di reprimere la rivoluzione, e si diedero battaglie sanguinosissime; ma il Senato accortosi essere le cose ridotte a tristo partito, stimò di accondiscendere alle giuste richieste degli Italiani. Cominciò dal concedere la cittadinanza ai popoli rimasti fedeli ai Romani, quindi alle città che vollero deporre le armi, e in fine a tutti indistintamente.

Questo fatto è notabilissimo nella storia, perché tutta l’Italia si unì con Roma e divenne un popolo solo. D’allora in poi, quando si radunavano i comizi, la folla del popolo, che accorreva da tutte le parti dell’Italia a Roma, era sì grande, che non potendo essere contenuta nel campo di Marte o nel Foro, in gran numero salivano sui tetti de’ templi e delle case per vedere almeno da lontano ciò che si faceva.

Nella guerra contro gli alleati ebbe molta parte un uomo che stimo bene di farvi conoscere. Era costui Giunio (*) Cornelio Silla, d’indole ostinata ed audace, e nemico implacabile di Mario.
[(*) Leggi: Lucio. *]
Divenuto console, cominciò col mettere a prezzo la testa di quel prode capitano, che egli odiava a morte, sotto pretesto ch’egli avesse favorito gli Italiani contro il Senato: accusa priva di fondamento, perché Mario aveva condotto gli eserciti romani contro gli alleati durante la guerra. Tuttavia l’accusa di Silla fu creduta giusta da molti, e Mario, di età già avanzata, di salute cagionevole, fu costretto a fuggire e a nascondersi in una palude, donde venne tratto e condotto in prigione. Qui fu mandato per ucciderlo uno schiavo, uno dei Cimbri da lui vinti. Il prigioniero guardatolo con fierezza gli disse: Hai tu coraggio di uccidere Mario? Il barbaro, impaurito, si diede alla fuga, gittando la spada e lasciando il carcere aperto. Così Mario poté uscire liberamente, e rifugiarsi nell’Africa.

Trovò colà un questore romano incaricato d’invigilare sopra il litorale di Cartagine. Costui, alla vista di un vecchio di tetro aspetto, con capelli irti e bianchi, domandò chi fosse. «Questore, rispose, va a dire ai tuoi padroni, che hai veduto Mario assiso sulle rovine di Cartagine». Colle quali parole egli paragonava la sua sventura col disastro di quella grande città.

Intanto un avvenimento inaspettato obbligò Silla a portare la guerra contro a Mitridate, padrone di un regno dell’Asia Minore detto Ponto. Per odio contro ai Romani quel re aveva fatto trucidare centomila Italiani, che abitavano nel suo regno. A quell’annunzio Silla si portò coll’esercito in Asia per punire le atrocità del barbaro Mitridate. Mario allora credendosi sicuro tornò senza indugio in Roma alla testa di una truppa di schiavi e di pastori; ed unitosi al console Cinna, malvagio al pari di lui, commisero la più infame azione, facendo morire senza pietà tutti gli amici di Silla. Ma la vendetta del cielo non tardò molto a piombare sopra quei due carnefici della patria. Mario morì di una malattia che egli stesso si cagionò colla crapola, vale a dire con eccessi nel mangiare e nel bere; Cinna poi fu trucidato per mano de’ suoi soldati. Mentre commettevansi tante barbarie, Silla ritornava col suo esercito vittorioso, non già per difendere la patria, ma per esserne il flagello. Trasportato dall’odio e dal furore, entrò in Roma, comandò che fossero messi a morte tutti i partigiani di Mario; e per compiere più presto la desiderata strage fe’ un elenco di questi, detto tavola di proscrizione. Coloro che erano ivi registrati furono detti proscritti, ovvero condannati, perché ognuno aveva ordine di ucciderli ovunque il incontrasse.

Disfatti i suoi avversari, Silla si fece nominare dittatore perpetuo, e riunì in sua mano i poteri civile e militare. Ma dopo avere esercitata per due anni la dittatura, e dopo avere con leggi depresso il partito popolare, ordinando che i tribuni non potessero aspirare a pubblici onori, sazio di sangue cittadino, rinunziò spontaneamente al potere e ritirossi a Cuma, dove si abbandonò a due vizi turpissimi, la intemperanza e la disonestà: questa scostumatezza gli cagionò una malattia assai crudele, e finì con essere rosicchiato vivo dai vermi.

Così finirono Mario e Silla, ambidue salvatori, flagelli e carnefici della patria. Questi due generali furono uomini di grande valore, ma loro mancò la religione che ne temperasse la ferocia.

XXVIII.
Guerra servile. - Guerra Mitridatica. - Cicerone e Catilina. - Primo triumvirato, Pompeo, Cesare e Crasso (45).

(Dall’anno 88 all’anno 61 avanti Cristo).

Mentre tutte le parti d’Italia si univano alla repubblica romana, e la guerra degli alleati si andava estinguendo, altre turbolenze sorsero per una rivoluzione di uomini fatti prigioni in battaglia e condotti a popolare l’Italia. Costoro non erano ammessi ai diritti civili; che anzi nelle fiere e nei mercati erano comperati e venduti a guisa di giumenti, e dicevansi servi, ossia schiavi. Il perché la loro ribellione suole denominarsi la guerra servile.

Spartaco, nativo di Tracia, era tenuto schiavo nella città di Capua. Di là fuggito, si mise alla testa di altri uomini audaci e risoluti al par di lui, e in breve si trovò capitano di oltre sessantamila combattenti. Quattro eserciti romani spediti, contro loro furono sbaragliati e posti in fuga. Finalmente un generale di nome Crasso con buon numero di prodi li assalì, e dopo molti ostinati combattimenti li vinse. Essi furono compiutamente battuti, e lo stesso Spartaco morì combattendo in Sicilia. Tuttavia parecchie squadre di quegli schiavi sfuggiti alle spade romane andavano qua e là saccheggiando i paesi e le città d’Italia; ma vennero totalmente sterminati da Pompeo, generale rinomato per la sua militare abilità e per altre splendide doti, le quali gli avevano meritato il favore del popolo romano. Egli fu eziandio mandato contro ad un gran numero di corsari, vale a dire assassini di mare, i quali infestavano i navigatori e le spiagge del Mediterraneo; e ne riportò compiuta vittoria.

Intanto che queste cose succedevano, avvenne che Mitridate re del Ponto, già stato sconfitto da Silla, tentò nuovamente la sorte delle armi contro ai Romani. Pompeo fu mandato contro di lui; Mitridate fu vinto e costretto a prendere la fuga cogli avanzi del suo esercito. Ritornato trionfante a Roma, Pompeo godeva in pace della gloria de’ suoi trionfi nell’amore e nell’amicizia di tutti i buoni, quando Catilina, nobile romano, pose a rischio la patria medesima. Questo indegno cittadino carico di debiti e di delitti, erasi posto alla testa di un gran numero di giovani sfaccendati, i quali non avendo nulla da perdere, aspettavano soltanto un capo che li guidasse nelle ribalderie. Il loro disegno era di uccidere i consoli e la maggior parte dei senatori, impadronirsi dell’erario pubblico, appiccare il fuoco ai quattro angoli della città e così sotto colore di libertà mettere Roma a sangue e a fuoco.

Ma il console Marco Tullio Cicerone, uomo di grande ardimento senno e dottrina, scoprì la congiura, e fece condannare a morte i congiurati. Catilina, uscito precipitosamente da Roma, corse nell’Etruria, dove raccolto il suo esercito di ribelli, combatté accanitamente; ma furono tutti sconfitti; e lo stesso Catilina rimase ucciso nel combattimento.

Quel Marco Tullio Cicerone fu il più celebre oratore latino. Egli era nato nella città di Arpino, e ancora giovane fu fatto questore, quindi edile e pretore, e finalmente console; e fu nel suo consolato che scoprì e dissipò la congiura di Catilina. Del che i Romani riconoscenti gli diedero il soprannome di padre della patria.

Altro personaggio egualmente celebre fiorì a questo tempo in Roma, e fu Marco Porzio Catone, assai rinomato per la esemplarità de’ suoi costumi. Da fanciullo mostravasi modesto e severo nelle parole, negli atti, nel guardo e nei medesimi trastulli. Rideva poco; era fermo nelle sue risoluzioni; non poteva tollerare nessuna adulazione. Studiò filosofia sotto ad un dotto maestro di nome Antipatro, abitante nella città di Tiro. Coltivò in modo particolare l’eloquenza. Era molto frugale nel mangiare e nel bere. A fine d’acquistare robustezza, d’estate stava col capo scoperto ai cocenti ardori del sole, e d’inverno si esponeva alla neve, al vento e al gelo. Nei viaggi camminava sempre a piedi; nelle infermità usava soltanto due rimedi: dieta e pazienza. Giovanetto ancora, fu fatto tribuno dei soldati, che seppe rendersi ubbidienti coll’istruirli e col persuaderli. Se ciò non bastava, con severità li puniva. Nella guerra di Spartaco si rese assai celebre, ma rifiutò i doni militari che gli furono offerti dopo la battaglia. Pel suo disinteresse, pei suoi bei tratti e pei nobili costumi ottenne la questura. La prima cosa che egli fece in quella carica fu di rimuovere dai pubblici impieghi tutti coloro che fossero trascurati nel compierli. La dignità di senatore, la sua scienza, la sua diligenza, il suo vivere semplice, la sua affabilità lo rendevano caro a tutti e lo facevano proclamare modello di virtù.

Amico di Catone era pure in Roma altro personaggio, che divenne ancor più celebre di Pompeo e di Cicerone, e fu Giulio Cesare. Egli era d’intrepido coraggio, parlava con somma eleganza, ma era ambizioso e desiderava di far parlare di sé e di acquistarsi onore e gloria. Giunto al consolato, ottenne il governo delle Gallie per cinque anni, e portò la guerra nella Gallia Transalpina, oggidì Francia, e di là fino all’isola di Bretagna, oggi dì Inghilterra, dove le armi romane non erano ancora penetrate.

Amico di Cesare e di Pompeo era Crasso, celebre per le sue ricchezze, e già conosciuto peI valore dimostrato nella guerra degli schiavi. Questi tre personaggi, per avere liberato Roma e l’Italia dalla invasione dei nemici e dalle guerre intestine, furono riconosciuti per veri padroni della repubblica. Eglino si unirono insieme di buon accordo a fine di governare l’Impero, che si estendeva omai a tutti i paesi in quel tempo conosciuti; e questo governo fu appellato primo triumvirato perché composto di tre uomini. Crasso era bensì un valente capitano, ma il più avaro dei Romani. L’avidità del bottino, lo impegnò in una guerra contro ai Parti, popoli bellicosi, che abitavano al di là della Mesopotamia, oggidì Diarbek. I Romani, malgrado il valore e la loro intrepidezza furono battuti e vinti. Si narra che il re dei Parti, quando gli fu presentata la testa di Crasso, ordinasse che ne fosse riempiuta la bocca d’oro fuso, dicendo: «Conviene saziare dopo morte quest’uomo di quel metallo di cui fu insaziabile durante la vita».




XXIX.
Guerra tra Cesare e Pompeo. - Cesare padrone della

Repubblica. - Sua morte.
Rimasti così Cesare e Pompeo i soli padroni della Repubblica, vennero anch’essi in discordia, poiché ciascuno voleva solo comandare. In quel momento Cesare trovandosi nelle Gallie, si mosse col suo esercito contro di Pompeo, il quale era in Roma. Vi stupirete, o giovani, come due amici tanto intimi siano così presto divenuti rivali e nemici; ma ciò avvenne perché la loro amicizia era solamente appoggiata sull’ambizione; e voi dovete ritenere, che la vera amicizia non può durare, se non si fonda sulla virtù. Pompeo all’accostarsi del suo avversario, non osando affrontarlo, uscì di Roma seguito da molti soldati e dalla massima parte dei senatori, e si ritirò nella Grecia.

Cesare inseguendo l’esercito di Pompeo lo raggiunse in una pianura della Tessaglia detta Farsaglia. Colà seguì un tremendo combattimento. Erano Romani contro Romani, Italiani contro Italiani; il sangue scorse orribilmente; ma la fortuna fu per Cesare, e Pompeo a stento poté salire sopra una nave per fuggire in Egitto. Colà un re traditore, di nome Tolomeo, niente commosso dalla sventura di quel gran capitano, gli fece barbaramente tagliare la testa per fame dono a Cesare. Questi a tale miserando spettacolo non poté trattenersi dal piangere, e mandò chi facesse prigione il crudele Tolomeo. Questi tentando di fuggire, nel varcare il Nilo annegò.

Ritornato Cesare a Roma e divenuto il solo padrone della Repubblica, quelli che avevan sostenuta la parte di Pompeo si aspettavano una tremenda vendetta; ma egli invece di vendicarsi concedette generale amnistia, vale a dire un generoso perdono a tutti quelli che si erano uniti a Pompeo per combattere contro di lui. Solamente Catone non volle affidarsi alla clemenza del vincitore. Per timore di cadere nelle mani di lui, egli si uccise volontariamente in Utica (oggidì Biserta), dove si erano riuniti i partigiani di Pompeo. Dal luogo ove morì Catone fu detto Uticense, per distinguerlo da Catone Maggiore, ossia il Vecchio, detto anche il Censore.

Cesare non solo perdonò a’ suoi nemici, ma per rendersi grati i cittadini fece eziandio distribuire grano, danaro e terre ai veterani, vale a dire a quei soldati, che invecchiati nel mestiere delle armi, erano incapaci di sostenere le fatiche militari. Prese poscia il titolo di dittatore perpetuo, che è quasi lo stesso che quello di re assoluto. Egli si faceva amare dal popolo per la sua dolcezza e per la sua beneficenza, e ovunque passava riscuoteva vivi applausi. Ma gli eccessi per lo più non durano; perché coloro i quali oggi vanno schiamazzando per le vie delle città colle grida di evviva, domani si arrogano il diritto di gridare muora. Una moltitudine di malcontenti, quelli stessi a cui Cesare aveva perdonata la morte, tramarono di uccidere il dittatore. Cassio e Bruto erano capi dei ribelli. Questi due scellerati risolvettero di trucidare Cesare appena si fosse recato in Senato. Cesare non faceva male ad alcuno, e non credeva che altri osasse fame a lui; e benché sospettasse della congiura tramatagli, volle condursi secondo il solito in Senato. Entratovi, parecchi senatori si gettarono sopra di lui, e lo trafissero coi loro pugnali. Quel grand’uomo tentò sulle prime la difesa; ma nel veder Bruto avanzarsi per ferirlo gli disse: Anche tu, o Bruto, figliuol mio? Quindi conoscendosi attorniato da nemici armati, si coprì il volto colla toga e cadde morto dopo aver ricevuti ventitre colpi di pugnale.

Gli uccisori di Cesare credevano che i Romani avrebbero fatto plauso al loro delitto, ma fu l’opposto. Da tutte parti il popolo dimandava perché il dittatore fosse stato messo a morte. Marco Antonio, intrinseco amico di Cesare, valorosissimo soldato dell’esercito di lui, nell’amarezza del suo dolore ne fece portare il cadavere sulla pubblica piazza, e convocò il popolo a rimirare ancora una volta quell’uomo che si poteva a diritto chiamare il benefattore della patria. Le lagrime ed i sospiri risuonarono per tutta la città, finché il dolore cangiatosi in furore, si corse alle armi per uccidere gli autori di quel misfatto.

Bruto e Cassio fuggirono da Roma, e noi fra poco vedremo a quale sventura li abbia condotti il loro delitto.



XXX.
Secondo Triumvirato. - Caduta della Repubblica e principio del Governo Imperiale (46).

(Dall’anno 44 av. Cr. all’anno 10 dell’Era volgare).


Ottaviano, nipote e figliuolo adottivo di Cesare, dimorava in Grecia allora che ne seppe la morte. Aveva appena diciassette anni, quando venuto in Italia gli fu significato che il Dittatore lo aveva istituito suo erede. Le belle sue maniere, la memoria dello zio, le ricchezze di cui faceva parte agli altri, servirono a cattivargli il favore di tutto il popolo.

Antonio, luogotenente di Cesare, era allora console, e dopo la morte di questo, per tutto il tempo del suo consolato, esercitò in Roma un’assoluta autorità. Deposta che ebbe questa dignità, non volendo esso deporre il comando dell’esercito, il Senato, per opera specialmente di Cicerone, gli oppose il giovine Ottaviano con. un forte esercito di veterani. Antonio fu vinto da questi presso Modena, e il suo esercito fu sbaragliato. Egli allora ricorse ad un certo Lepido, comandante di un florido esercito, Uomo ricco, ma inabile al maneggio degli affari, e di cui nulla avevasi a temere. Questi due capitani uniti insieme si avviarono alla volta di Ottaviano; ma venuti con lui a parlamento in una isoletta del Ticino (*), conchiusero di associarsi per governare a modo loro la Repubblica. Questa seconda unione di potere in tre persone fu detto secondo Triumvirato.


[(*) Leggi: Reno. *]
I nuovi triumviri protestarono da prima che non volevano far male ad alcuno, ma poi scrissero un editto di proscrizione, pel quale erano condannati a morte parecchi cittadini, e tra questi anche alcuni loro amici, benefattori, parenti e fratelli. Cicerone fu compreso fra i proscritti: gli venne troncata la testa mentre fuggiva, e posta su quello stesso luogo, donde quell’intrepido oratore aveva sostenuta tante volte la maestà delle leggi, repressa l’audacia dei malvagi.

Mentre il sangue cittadino scorreva per le piazze di Roma e delle altre città d’Italia, Bruto e Cassio avevano raccolto in Grecia buon nerbo di truppe per opporsi ad Antonio e ad Ottaviano. Lo scontro de’ due eserciti fu a Filippi, città della Grecia, fondata da Filippo, padre di Alessandro il Grande.

La battaglia fu terribile, Cassio si uccise nella zuffa, e Bruto per non cadere vivo nelle mani de’ nemici si die’ anch’esso volontariamente la morte. Si narra che qualche tempo prima di questa battaglia Bruto una notte, mentre stava leggendo, si vide al fianco un’ombra, la quale, da lui interrogata chi fosse, gli rispose: Io sono il tuo genio cattivo: ti attendo a Filippi; e che la notte precedente alla pugna questa di nuovo gli comparve per annunziargli il prossimo suo fine. Si può credere che i rimorsi, da cui era agitato Bruto per l’uccisione del suo amico e benefattore, gli rappresentassero all’immaginazione que’ fantasmi, poiché i rimorsi sono i più crudeli carnefici dei colpevoli.

Voglio qui favi notare un errore commesso da molti eroi del paganesimo. Pensavano essi di trovare in una volontaria morte il rimedio ai mali della vita. Ma la religione, il buon senso, le leggi e gli stessi filosofi pagani condannarono il suicidio, vale a dire l’uccisione di se stesso; perché la vita essendoci donata dal Creatore, Egli solo ne è padrone; e la cristiana religione reputa un grande eroe colui che sa reggere al peso delle sventure.

Dopo la battaglia di Filippi, Ottaviano ed Antonio si divisero tra loro l’impero senz’avere alcun riguardo a Lepido. Ottaviano ebbe l’Occidente, vale a dire l’Italia, le Gallie, la Spagna con tutti gli altri paesi vicini a questi, e già sottomessi a Roma. Antonio scelse l’Oriente, cioè la Grecia, l’Egitto e tutti i paesi dell’Asia già soggiogati dai Romani.

Intanto l’ambizioso Ottaviano più astuto, ed anche più virtuoso del suo collega, preparavasi a tentare l’impero del mondo. Contribuì assai a far risplendere la virtù di lui la mala vita di Antonio. Costui, invece di occuparsi del governo de’ suoi popoli, si abbandonò all’ozio ed alla crapula, lasciandosi affascinare dai vezzi di una regina d’Egitto chiamata Cleopatra. Questi vizi disonorano gli uomini e li fanno cadere in dispregio presso a tutti i buoni.

Ottaviano all’opposto si occupava a distruggere i partigiani di Bruto, che non erano morti a Filippi. Attendeva con tutte le forze a promuovere l’ordine ed a procacciarsi coi benefizi l’amore de’ Romani. Quando poi si accorse che Antonio per la disonorevole sua condotta era caduto in dispregio, marciò contro di lui conducendo una flotta, vale a dire un’armata di circa trecento navi. Antonio, scosso dal pericolo, risvegliò l’antico suo animo, e raccolte tutte le sue forze, si mosse ad incontrare Ottaviano. Lo scontro delle due armate fu nella Grecia presso al promontorio di Azio, e perciò questo fatto fu detto Battaglia d’Azio, avvenimento assai notabile perché da esso fu deciso il destino di tutto il Romano impero.

La battaglia fu con vigore sostenuta per qualche tempo da ambe le parti; ma poscia cominciò a cedere da quella di Antonio, il quale, vedendo Cleopatra a fuggire, abbandonò l’armata per tenerle dietro, ed Ottaviano riportò vittoria. Quelli che non furono vinti, vedendosi abbandonati dal loro capitano, si arresero spontaneamente. L’infelice Antonio dopo essere andato qua e là vagando per qualche tempo, venuto in Alessandria, si diede volontariamente la morte. Cleopatra, alla notizia della morte di Antonio, procurò di farsi mordere da un aspide, specie di serpe molto velenoso, e poco dopo spirò. Tremende conseguenze della disonestà!

Ottaviano giunto in Roma depose ogni pensiero di guerra, e tutto si occupò nel consolidare il suo governo e nel rendere la pace al mondo già da tanti anni dalle guerre agitato e sconvolto. Siccome il nome di Dittatore era venuto in dispregio, egli prese il modesto titolo d’Imperatore, vale a dire comandante, titolo col quale i soldati d’ordinario salutavano il loro capitano dopo la vittoria. Aggiunse eziandio al nome di Ottaviano quello di Augusto, e con questo nome parve altresì prendere nuovi costumi. Alle guerre civili, alle proscrizioni, alle stragi sottentrò l’ordine, la sicurezza e l’abbondanza. La pace che in quel tratto di tempo tutto il mondo godeva, l’universale aspettazione in cui vivevano le nazioni di un maestro, il quale dal cielo venisse ad addottrinare gli uomini, indicavano prossimo il sospirato momento predetto ne’ Libri santi, in cui tutti i popoli della terra per mezzo di un Salvatore dovevano essere chiamati alla conoscenza del vero Dio.

Pertanto circa l’anno del mondo 4000, di Roma 752, del regno di Augusto 45, nacque il Messia. Augusto senza saperlo concorse all’adempimento de’ divini decreti; poiché egli ordinò un censo, ossia la numerazione di tutti i sudditi del vastissimo Romano impero; la qual cosa obbligò Maria SS. e S. Giuseppe a recarsi in Betlemme, città della Giudea. Quivi, secondo le profezie, nacque Gesù Cristo Salvatore del mondo.




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