S giovanni bosco


XXIII. Federico Barbarossa



Yüklə 1,47 Mb.
səhifə16/40
tarix11.07.2018
ölçüsü1,47 Mb.
#55043
1   ...   12   13   14   15   16   17   18   19   ...   40

XXIII.
Federico Barbarossa (102).

(Dall’anno 1154 all’anno 1162).

Erano scorsi più di settant’anni dacché gli imperatori di Germania non avevano più cercato di mischiarsi nelle cose d’Italia, quando fu incoronato il famoso Federico, soprannominato Barbarossa dal colore di sua barba. Egli era un giovane di belle forme, prode, magnanimo ed anche prudente, qualora non si fosse abbandonato agli impeti di quell’orgoglio che lo fecero abborrito in tutta Italia.

Egli accusava di viltà i suoi antecessori, perché avevano ceduto all’intrepidezza di Gregorio VII, e si erano lasciati strappare le redini del governo d’Italia. Perciò, fisso di volere riacquistare i diritti che credeva competere a sé, nell’anno 1154 discese in Lombardia con numeroso esercito.

Ma accortosi che gli Italiani erano pronti a fargli resistenza, stimò bene di entrare solamente nelle piccole città incapaci di opporsegli. Quelle fra esse che ebbero cuore di serrare le porte in faccia all’esercito di lui, vennero orribilmente saccheggiate e ridotte in cenere; tale fu la sorte che toccò alle città di Chieri, Asti, Tortona e Spoleto.

Il romano Pontefice, all’udire le stragi che quel terribile principe menava ovunque, si studiò di calmarne il furore con buone accoglienze, e gli offrì d’incoronarlo imperatore. Questa accondiscendenza del romano Pontefice appagò Federico, il quale senza più lasciò Roma in libertà e ritornò in Germania.

I Milanesi per altro avevano saputo farsi rispettare; tutta la gioventù era corsa all’armi, e, poiché i preparativi di guerra avevano vuotate le casse pubbliche, si videro con una specie di entusiasmo a somministrarsi da ogni ordine di cittadini quanto faceva bisogno. In questa guisa i Milanesi provvidero non solo alla sicurezza della propria città, ma furono altresì in grado di venire in soccorso delle popolazioni vicine.

La resistenza che parecchie città italiane avevano fatto all’imperatore, l’avrebbe dovuto consigliare a non più ritornarvi; ma egli si era ostinato di volerle a qualunque costo soggiogare. Tre anni dopo scende di nuovo in Lombardia seguìto da infinita soldatesca; minaccia Milano, ne costringe i cittadini a venire ad un trattato, e, abusando di quella convenzione, si attribuisce l’autorità di eleggere il podestà, vale a dire il governatore di Milano. Siffatta violazione dei patti recentemente conchiusi irritò altamente i Milanesi, i quali nel loro furore scacciarono il podestà e diedero di piglio alle armi, pronti ad affrontare l’ira dell’imperatore e morire per la salvezza della patria.

A questa notizia Barbarossa corre su Milano col nerbo dell’esercito; ma i forti cittadini gliene chiudono l’entrata. Gli assalitori in simile maniera respinti, guastano i raccolti della campagna, scortecciano gli alberi e cagionano mille danni. Una guerra si crudele infondeva grandissimo. timore negli abitanti delle terre vicine; ciò non ostante la città di Crema, alleata dei Milanesi, non abbandonò i suoi fratelli nel momento della sventura.

Federico intimò severamente ai Cremaschi di separarsi dai Milanesi e sottoporsi a lui; ma essi intrepidamente risposero: Noi siamo pronti a seppellirei piuttosto sotto alle rovine delle nostre case, che mancare all’amicizia giurata ai nostri fratelli. Questa coraggiosa risposta non era a tempo, e non fece altro che inasprire vieppiù l’irritato sovrano. Dopo una difesa eroica gli assediati in Crema dovettero cedere non vinti, ma traditi da un loro concittadino. Gli abitanti, squallidi e sfiniti per la sofferta carestia, ebbero licenza di ricoverarsi in Milano, ove furono accolti cogli onori dovuti a fedeli alleati. Allora Crema fu dal crudele Federico abbandonata al saccheggio ed alle fiamme. Correva l’anno 1160.

Ridotta la città di Crema ad un mucchio di rovine, i soldati di Barbarossa si portarono di nuovo intorno a Milano, volendo costringerla ad arrendersi per fame. Perciò, oltre all’avere distrutti i raccolti delle campagne circostanti, quei barbari taglia­vano le mani ai contadini che tentavano introdurre grani o frutta in città. Non minore era l’orrore dell’interno della città; nelle strade, nelle piazze si vedevano persone e bestie morte di fame, da cui solo campava chi sapeva procurarsi coll’astuzia o colla violenza qualche cibo grossolano.

Il popolo, ridotto alla disperazione, ricusava di obbedire ai magistrati, e chiedeva ad alta voce che si dovesse consegnare la città; i consoli invece esortavano i cittadini alla difesa, dipingendo loro la vendetta che farebbe un imperatore offeso ed implacabile. Fu inutile ogni consiglio: la plebaglia scorgendo vana ogni resistenza, si ammutinò e minacciava la vita dei consoli, se persistevano nella difesa. Allora fu risoluto di sottomettersi a Federico.

Era il dì 7 marzo l 162; i Milanesi si avviavano a Lodi per giurare di essere fedeli all’imperatore; la gente camminava divisa in turbe, secondochè erano divisi i quartieri della città. Gli uni seguivano gli altri in silenzio, ed in mezzo di essi conducevano il CARROCCIO.

Era il Carroccio un carro sacro a somiglianza dell’arca degli Ebrei, che un vescovo di Milano di nome Ariberto nel 1039 aveva inventato, Affinché servisse di centro di riunione, e tenesse in ordine la milizia, specialmente in tempo di guerra. Il carro era pesante e tirato da buoi coperti di gualdrappe, sulle quali vedevasi dipinto o intessuto lo stemma della città. Era sormontato da un’antenna, che aveva sulla cima un pomo dorato con due stendardi, sicché potevasi vedere da tutto un esercito; nel mezzo era l’immagine del Crocifisso. Nell’alto di quel carro sedeva un trombettiere, che dava il segno dell’assalto, della ritirata o di altro. Uno stuolo dei più forti soldati stava attorno al Carroccio per fargli la guardia; ogni guerriero riponeva il suo onore e la sua salvezza nel Carroccio: nelle mosse e sul campo di battaglia il Carroccio era in mezzo alle file dei combattenti, e si diceva che l’onore era salvo, se il Carroccio non cadeva nelle mani dei nemici.

Giunto pertanto il sacro Carro dei Milanesi dinanzi a Federico, le trombe suonarono per l’ultima volta, la bandiera si chinò innanzi al trono imperiale, e il Carroccio con novantaquattro stendardi fu consegnato al vincitore; tutta la moltitudine prostrata chiedeva misericordia.

Il conte di Biandrate, uno dei signori Italiani della corte di Federico, tutto amore pei suoi concittadini, colla speranza di calmare lo sdegno di quel monarca, prese in mano un crocifisso, fecesi avanti, e inginocchiato sui gradini del trono, in nome di Dio pregò l’imperatore di avere compassione di quella città e dei suoi cittadini. Tutti erano commossi fino alle lagrime; Federico nulla rispose, e senza dar segno di commozione ricevé il giuramento di fedeltà, scelse quattrocento ostaggi; di poi comandò al popolo di ritornare a Milano e di atterrarne le porte e le fortificazioni.

I Milanesi, incerti del futuro loro destino, si restituirono tremanti alle loro case. Erano già scorsi nove giorni e non vedevano comparire Barbarossa; perciò cominciavano a concepire qualche speranza che l’imperatore avesse loro perdonato, quand’ecco giungere l’ordine ai consoli di far uscire gli abitanti dalle mura. Non è a dire con quante lagrime e con quante strida fosse ricevuta la fatale sentenza... lamenti inutili ai vinti!

Bisognò abbandonare il luogo natìo. Avreste veduto torme d’uomini, di donne, di fanciulli vagare più giorni come bestie fra le campagne; quindi badando ciascuno a mitigare la propria infelicità, si procurarono un ricovero chi a Pavia, chi a Bergamo, chi a Tortona. La città di Milano divenne allora muta e squallida, come se fosse un vasto cimitero.

Intanto giunse a Milano l’imperatore coll’esercito e condannò la città ad essere distrutta, volendo così cancellare dal mondo il nome dei Milanesi.

Sei giorni durò quel guastare e distruggere; Milano divenne un mucchio di pietre. Dicesi che fra le rovine si conducesse l’aratro, e che vi fosse sparso il sale in segno di perpetua sterilità e maledizione. Le milizie delle città italiane alleate di Federico aiutarono a compiere la crudele vendetta, e colsero quell’occasione per isfogare l’odio loro contro a quella città, la quale negli anni addietro aveva quasi intieramente rovinato le città di Lodi e di Como.

Devo per altro dirvi che furono stolti e scellerati quegli Italiani, i quali per vendetta si prestarono a distruggere Milano. La vendetta è sempre biasimevole; ma quello fu un terribile avviso agli uomini, di non mai abusare della propria forza o della propria autorità per opprimere i deboli, perché avvi una Provvidenza, la quale dispone delle sorti degli uomini, e per lo più permette che gli oppressori dei deboli paghino il fio della loro iniquità coll’essere da altri oppressi.

XXIV.
Ultime azioni di Federico Barbarossa. Lega Veronese. Lega Lombarda (103)

(Dall’anno 1162 all’anno 1190).


Alla disfatta di Milano succedette l’oppressione dell’Italia, ridotta in servitù da Federico ed oppressa dalle continue imposte dei suoi ministri. Questo stato violento non poteva durare: le città di Verona, di Vicenza, di Padova e di Trevigi incominciarono a stringersi in lega tra loro per fare testa agli ordini di Federico. Per soffocare questo principio di ribellione egli si mosse da Pavia, con buon numero di soldati; ma giunto presso Verona, videsi schierato contro l’esercito delle città collegate assai più numeroso del suo, e non osando di venire a battaglia, si ritirò, e poco dopo partì nuovamente per la Germania. L’esempio dei Veronesi infuse coraggio ad altre città: Cremona, Bergamo, Mantova, Brescia e Ferrara entrarono anch’esse nella lega, giurando difendersi le une le altre contro la tirannia imperiale, e specialmente convennero di riedificare Milano per condurvi gli abitanti dispersi nei borghi vicini. Così quella città risorse in breve dalle sue rovine.

Egli è anche durante l’assenza dell’imperatore, che un esercito guidato da un suo luogotenente assediò Ancona, che si era posta sotto la protezione dell’Impero d’Oriente; ma avendo Ancona ricevuto rinforzo, i Tedeschi dovettero partirsi dopo un lungo assedio, in cui gli assediati, uomini e donne, diedero luminose prove di valore, benché ridotti agli estremi dalla fame.

Mentre nuove città andavano associandosi alla lega lombarda, Pavia si manteneva nella fede dell’imperatore. Per angustiare questa città i collegati determinarono di fabbricarne di pianta un’altra, che non fosse molto distante, e di fortificarla con ogni arte. Per questo fine scelsero una bella e feconda pianura, circondata da tre fiumi, ed obbligando gli abitanti delle vicine terre di Gamondio (ora Castellazzo), Marengo, Solero ed Ovilio a trasferire colà la loro abitazione, fabbricarono nel 1168 la città, che in onore del papa Alessandro III, capo della lega, vollero chiamata Alessandria. Siccome la fretta era grande, e mancavano i materiali, così furono i tetti di quelle case coperti di paglia, pel che alla città venne il nome di Alessandria della Paglia. Fu essa ad un tempo fortificata di buoni bastioni e di profonde fosse; e tale fu il concorso della gente a prendervi dimora, che poco dopo si poterono mettere insieme quindici mila armati.

Avvertito Federico della formazione della Lega Lombarda e degli apparati di guerra che si stavano facendo, raccolse un numerosissimo esercito e precipitò in Italia. Tutti i passaggi, che di Germania conducevano in Italia, erano validamente difesi dagl’Italiani: né gli era aperto il passo fuori che dalla parte di Susa. Traversò il Moncenisio, arse la città di Susa, sottopose Asti, che già risorgeva dalle sue rovine, e si portò verso Alessandria. La novella città si difese fortemente quattro mesi, senza che gli alleati le portassero alcun soccorso. Finalmente la Lega mandò un forte sussidio agli assediati, e Federico fu costretto a levare l’assedio.

Invano per cinque anni egli combatté e si affaticò, per soggiogare i coraggiosi Italiani. Erano troppi ed ostinati gli avversari, che aveva a combattere qua e là; e spesso avveniva che un giorno vinceva il nemico, e l’indomani ne era egli medesimo sconfitto. Finalmente giunse un nuovo esercito di Tedeschi in aiuto dell’imperatore. Allora i Milanesi, aiutati da un numero di scelti alleati, lo andarono ad incontrare a Legnano, sulla via che da Milano conduce al lago di Como.

Quei prodi Italiani, vedendo avanzare i nemici, s’inginocchiarono per chiedere a Dio la vittoria, indi si rialzarono risoluti di vincere o di morire. Dopo ostinatissimo combattimento, la vittoria fu compiuta a favore degli alleati; lo stesso Federico cadde combattendo presso al Carroccio, e a stento poté fuggire solo e sconosciuto fino a Pavia, dove già era creduto morto.

Questi colpi di avversa fortuna fecero conoscere a Federico che sarebbero tornati inutili tutti i suoi sforzi, sicché decise di riconciliarsi a qualunque costo col romano Pontefice e venire a trattati colla Lega Lombarda. Perciò spedì deputati al Papa per chiedergli pace e assoluzione della scomunica, promettendo che sarebbesi allontanato dall’antipapa, che egli follemente si era creato.

Il Papa, accertatosi delle disposizioni dell’imperatore, di buon grado si trasferì a Benevento: di là il re di Sicilia mandò un buon numero di soldati per difenderlo; ove ne fosse bisogno, e fargli onorevole corteggio fino a Venezia, luogo delle conferenze, che si dovevano tenere tra l’imperatore e gli alleati. Il Papa non volle conchiudere cosa alcuna senza parteciparla alle altre città della Lega Lombarda; e a questo fine si recò nella città di Ferrara. Ivi radunò il patriarca di Venezia, gli arcivescovi di Ravenna e di Milano con molti altri vescovi, marchesi, conti e tutti quelli che erano costituiti in autorità civile od ecclesiastica.

Avendoli tutti radunati nella chiesa di S. Giorgio, ove era accorso anche innumerevole popolo, il Papa tenne loro il seguente discorso: «Ben vi è nota, cari miei figli, la persecuzione che la Chiesa ha sofferto per parte del principe che più d’ogni altro era obbligato a difenderla; e senza dubbio voi gemete sopra il saccheggio e sulla distruzione delle chiese, sugli incendi, sugli omicidi, sul diluvio dei delitti, che sono inevitabile conseguenza della discordia e dell’impunità. Ha dato il cielo un libero corso a queste spaventose sciagure pel lungo spazio di diciotto anni; ma oggi finalmente, calmata questa orribile procella, ha tocco il cuore dell’imperatore e ridotta la fierezza di lui a domandarci la pace. È egli possibile non riconoscere un miracolo dell’Onnipotenza divina, allora che si vede un sacerdote disarmato e curvo, quale io sono, sotto al peso degli anni, trionfare della germanica durezza e vincere senza guerra un principe sì formidabile?». - Disse poscia come egli non aveva voluto accettare condizioni di pace senza parteciparle agli alleati, e lodò il religioso coraggio con cui avevano difesa la Chiesa.

Gli alleati, rapiti dalle eloquenti parole del Pontefice, proruppero in vivi e prolungati applausi, lodando i disegni che aveva il Pontefice di pacificare la loro patria, e promisero di secondarlo.

Il Pontefice da Ferrara ritornò a Venezia, ove si stabilì una tregua di sei anni, scaduta la quale, fu poi il 25 giugno 1183 conchiuso nella città di Costanza un trattato di pace, in cui l’imperatore cedette ai Comuni il diritto di levare eserciti, di confederarsi, fortificarsi, amministrare la giustizia e di eleggersi i consoli.

L’imperatore, dopo di aver renduto i debiti onori al Sommo Pontefice, pubblicamente dichiarò, che, ingannato da cattivi consiglieri, aveva combattuta la Chiesa, credendo di difenderla, che ringraziava Dio di averlo tratto di errore, che perciò sinceramente abbandonava l’antipapa e i suoi seguaci, e riconosceva Alessandro per legittimo Pontefice, successore di S. Pietro e Vicario di Gesù Cristo. Allora Federico fu assolto dalla scomunica e dagli altri suoi peccati, e ricevette la santa comunione dalle mani del Papa. Stabilite queste cose, Federico si ritirò dall’Italia.

Nell’anno 1189 la Palestina essendo di nuovo caduta nelle mani dei Turchi, fu predicata un’altra crociata. Federico giudicò quella un’occasione propizia per espiare le sue colpe e darne un pubblico segno di ravvedimento; prese la croce, mise in piedi numerosissimo esercito e si partì alla volta della Palestina per combattere gli infedeli. In quel lungo cammino dovette venire più volte a battaglia e ne uscì sempre vittorioso. Finalmente, giunto in Asia, volle che le sue genti prendessero riposo in una ricca e ridente valle irrigata dal fiume Cidno, ora detto Salef.

Anticamente un illustre capitano, di nome Alessandro il Grande, volle bagnarsi in questo fiume e corse gravissimo rischio della vita. Federico, sfinito pel caldo estremo, volle parimente prendere un bagno in quelle medesime acque, le quali essendo straordinariamente fredde, gli fecero bentosto perdere i sensi. Ne fu tolto fuori sull’istante; ma egli non poté più dire altro che queste parole: Ringrazio di cuore il Signore di avermi fatto la grazia di compiere una parte del mio voto e di morire per la sua causa. Dopo di che spirò nel 1190 in età di anni settanta.



XXV.
Dandolo di Venezia (104)

(Dal1’anno 1190 all’anno 1207).


La città di Venezia, miei cari amici, come già vi dissi, è tutta quanta fabbricata sul mare Adriatico. Essa è composta di una quantità d’isolette, sparse per mezzo a quelle acque e congiunte insieme per mezzo di ponti; le mura delle case, dei palazzi, delle chiese e degli altri edifizi sono per la maggior parte. battute dalle onde tranquille dei canali, che dividono le sopra indicate isolette, e sopra i canali si vedono continuamente scorrere certe leggiere barchette, appellate gondole.

Or bene quella Venezia, a cui non si poteva giungere da alcuna parte, se non in barca, divenne in breve tempo, per la sua industria e pel suo commercio, una delle più floride e ricche città del mondo. Da più secoli reggevasi a forma di repubblica governata da un capo, a cui si dava il nome di doge, ovvero duca. Tra questi dogi uopo è che io vi parli di uno, chiamato Enrico Dandolo, uomo segnalatissimo pel suo valore in guerra e per la sua probità in tempo di pace.

Sebbene Enrico fosse cieco ed aggravato dal peso di oltre ottant’anni, tuttavia conservava ancora l’ardore della gioventù unito al vigore della virilità. I Veneziani, pieni di fiducia nella sua esperienza e nel suo coraggio, lo riguardavano come il più saldo sostegno della loro repubblica.

Un giorno, in cui il doge Dandolo aveva convocato una grande assemblea di popolo, sei cavalieri francesi coperti delle loro armature e colla croce rossa sulle spalle, si presentarono in mezzo all’adunanza, si posero ginocchioni, e piangendo, uno di loro prese a parlare ad alta voce così: «Signori Veneziani, noi siamo venuti qui in nome dei prìncipi e dei baroni più possenti della Francia per supplicarvi ad avere pietà di Gerusalemme, la quale è ricaduta in mano dei Turchi. Sanno i Francesi che voi siete i sovrani del mare, e ci ordinarono di venire a gettarci ai vostri piedi e di non rialzarci, se prima non ci abbiate promesso di aiutarli a liberare la Terra Santa dal giogo degli infedeli».

Terminate queste parole, i sei cavalieri cominciarono di nuovo a sciogliersi in lagrime, e in tutta l’assemblea risuonò questo grido: «Vel concediamo! vel concediamo!».

Il Papa che allora regnava a Roma, chiamato Innocenzo III, aveva eziandio invitato tutti i sovrani d’Europa a prendere la croce; ma soltanto un buon numero di signori Francesi e di Italiani si accinsero a quella nuova guerra santa. I Veneziani pel desiderio di cooperare a tale impresa accettarono l’offerta, e Dandolo stesso, malgrado la sua vecchiezza, volle crociarsi; e fece allestire un numero sufficiente di galere per quella grande spedizione. La flotta veneziana aveva già sciolto le vele per la Palestina, e strada facendo aveva ridotto ad obbedienza Zara, città della Dalmazia, che si era ribellata alla repubblica, quando un principe greco, chiamato Alessio, e soprannominato l’Angelo, in età di soli dodici anni, andò a presentarsi ai crociati, supplicandoli di dargli aiuto.

Il giovane Alessio era figliuolo di un imperatore di Costantinopoli, detto Isacco l’Angelo, cui un crudele fratello aveva avuta la barbarie di far cavare gli occhi e chiuderlo in una profonda prigione, per mettere sé al possesso del trono. Fortunatamente Alessio poté fuggire dalla reggia travestito e giungere fino a Zara, dove era allora raccolto l’esercito dei crociati.

La gioventù di Alessio, le sue grazie, il dolore che egli dimostrava pel suo infortunio e per quello del suo genitore trassero a pietà i buoni crociati; e poiché quel coraggioso fanciullo, dotato di Una ragione affatto superiore agli anni, promise grandi ricompense, purché avessero voluto recarsi a Costantinopoli per discacciare l’usurpatore dal trono e riporvi il cieco Isacco, tutti acconsentirono con premura a porgergli aiuto, per non permettere che un sì orrendo misfatto rimanesse impunito.

Pochi giorni appresso l’intiera flotta dei Veneziani che il vecchio Dandolo comandava, veleggiò verso Costantinopoli; e dopo parecchi mesi di tragitto pericoloso per un sì grande numero di uomini e di cavalli, giunsero ad un mare detto Propontide, oggidì mare di Marmara. Colà si offrì Costantinopoli ai loro occhi maravigliati, e a quella vista un grido di ammirazione uscì dalla bocca di tutti.

Ma quando le navi si accostarono alla città, e si poterono bene distinguere i suoi bastioni coperti di un’immensa quantità di soldati, non vi fu tra i Latini neppur un guerriero, il quale non gettasse lo sguardo sulla sua spada e sulla sua lancia, e non fremesse vedendo il numero dei nemici, con cui avrebbe avuto a combattere; poiché in Costantinopoli erano ben venti armati contro ad ogni soldato francese e veneziano. Nondimeno, dopo quel primo momento di sorpresa, da cui anche i più intrepidi non avevano saputo guardarsi, ognuno, rinfrancato dalla presenza e dalla perizia di Dandolo, ripigliò coraggio e si preparò valorosamente a combattere nel tempo stesso e per mare e per terra.

L’usurpatore di Costantinopoli, che si chiamava eziandio Alessio Angelo, quel principe crudele, che non aveva esitato di far accecare il proprio fratello per farsi strada al dominio, volle provarsi a combattere coi crociati; ma al solo aspetto di quegli uomini saldi come muraglie, i Greci fuggirono vergognosamente senza pugnare, ed abbandonarono ai Latini le torri, le mura ed i principali quartieri della città.

Dandolo ed i baroni francesi non avevano più se non un passo a fare per rendersi padroni di tutta la città, quando l’imperatore Alessio, atterrito al vedersi attorniato da tanti guerrieri, ordinò che fosse apparecchiato un piccolo naviglio carico d’oro e di ricchezze, e sopra quello montando, col favor dell’oscurità della notte riuscì ad ingannare la vigilanza dei Veneziani e a fuggire. Alcuni ufficiali del palazzo volendosi far un merito del loro attaccamento ad Isacco, lo tolsero di prigione e lo vestirono della porpora imperiale, lo riposero sul trono e invitarono suo figlio ad andarsi a gettare fra le sue braccia. I Veneziani ed i Francesci, stupefatti di quell’inaspettata rivoluzione, deposero le armi, e lasciarono in libertà il giovane Alessio, il quale giurò di compiere senza indugio la sua promessa, vale a dire di dare ai crociati grosse somme di danaro ed un buon numero di soldati e di navi per la conquista di Terra Santa.

Ma la storia ci ammaestra come i Greci siano quasi sempre stati di mala fede; ed Isacco udendo l’impegno che suo figliuolo si era preso coi Latini, rifiutò di mantenere promesse cotanto sacre. A siffatta notizia i Crociati furono pieni d’indignazione, e pensando ai loro servigi rimeritati sì male, al sangue sparso per quella causa straniera, e tante fatiche rimaste infruttuose per la conquista di Gerusalemme, ricorsero alle armi.

Ma tosto Isacco e il giovane Alessio furono puniti di tale ingratitudine; un ufficiale del palazzo imperiale uccise a tradimento il cieco padre col figliuolo, facendosi proclamare imperatore.

Allora che la nuova di queste cose giunse a Dandolo ed ai capitani francesi, non poterono essi trattenersi dallo spargere lagrime sul destino del giovane Alessio. Un giusto sdegno rapidamente passa da’ baroni nelle schiere dei loro soldati, e tosto, dato un gagliardo assalto, entrano nella città e in poco tempo ne rendono padroni.

Marzuflo (tale era il nome dell’omicida usurpatore) scorgendo inutile ogni resistenza, si dà alla fuga. Allora i crociati, divenuti padroni della grande città, proposero a Dandolo di salire sul trono imperiale: ma il vecchio doge se ne scusò a cagione della grave età, asserendo che amava meglio essere doge di Venezia e finire i suoi giorni nell’amore dei suoi cittadini, che diventare imperatore di Costantinopoli. In sua vece fu eletto Baldovino, conte di Fiandra, che era allora una provincia di Francia.

Il venerando Dandolo, dopo rifiutato il trono imperiale per fare ritorno a’ suoi, prima di partire da Costantinopoli, assalito da grave malattia, conseguenza delle ferite riportate in battaglia, finì i suoi giorni fra quelle mura, che erano state testimoni delle gesta di sua vecchiezza. Egli morì nel 1205.

La storia loda il valore e la generosità di Dandolo nell’assalire i Greci e soggiogare Costantinopoli: ma lo biasima, perché invece di condurre le sue genti alla conquista di Terra Santa, come aveva promesso al Papa ed ai Francesi, consumò uomini e tempo per uno scopo assai diverso; motivo per cui i Luoghi Santi continuarono ad essere in mano dei Turchi.

Quasi fino a quel tempo il popolo di Venezia aveva partecipato nella elezione del doge e dei membri del gran Consiglio, dai quali veniva governata la repubblica. Ma circa a quest’epoca si cominciò a togliere al popolo la elezione del doge, quindi quella dei membri del gran Consiglio, e da ultimo fu stabilito che non potesse essere ammesso fra questi membri chiunque non discendesse da parenti, i quali vi avessero avuto posto. Il popolo e gran numero di gentiluomini, esclusi in questo modo dal gran Consiglio, si sollevarono; laonde per far cessare ogni sommossa fu creato un tribunale detto dei Dieci, perché composto di dieci uomini: e alloro arbitrio fu affidata la tutela dello Stato. Questo tribunale coll’andare del tempo restrinse in sé la suprema autorità, e (tuttoché possa parere essere stato misterioso sovente e severissimo), apportò molti vantaggi alla repubblica.


Yüklə 1,47 Mb.

Dostları ilə paylaş:
1   ...   12   13   14   15   16   17   18   19   ...   40




Verilənlər bazası müəlliflik hüququ ilə müdafiə olunur ©www.genderi.org 2024
rəhbərliyinə müraciət

    Ana səhifə