S giovanni bosco



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XIX.
Gregorio VII (98).

(Dall’anno 1073 all’anno 1085).


La venuta dei Normanni si può considerare come l’ultima invasione dei barbari in questa nostra patria; perciò avvenimenti di altro genere ci prepara la storia, e fra gli altri io voglio raccontarvi la vita di un Papa, che fu uno dei più illustri benefattori dell’Italia. Ma perché meglio comprendiate i fatti che io sono per raccontarvi dovete osservare che da molto tempo i Papi, unitamente ai vescovi ed ai preti, erano quasi i soli nell’Italia, e direi in tutto il mondo, i quali mantenessero in fiore le scienze e difendessero i popoli dall’oppressione dei barbari; la qual cosa non potendo fare da soli, in alcuni gravi casi ricorsero alla protezione di qualche insigne capitano, re o imperatore per avere appoggio ed aiuto.

I re di Francia e segnatamente Carlomagno reputavano a loro grande ventura di poter fare qualche favore al Vicario di Gesù Cristo; quindi, oltre il difendere e proteggere il romano Pontefice e tutti gli Italiani, fecero grandi donazioni al Papa, ai vescovi, ai preti, alle chiese, ai monasteri e ad altri luoghi pii. Da queste donazioni nacquero gravi abusi. Poco per volta gl’imperatori ed i re di Francia e di Germania sotto pretesto di donazioni cominciarono ad introdursi nelle cose di chiesa e volevano conferire i benefizi ecclesiastici a chi più loro piaceva. La cosa andò tant’oltre, che i re non solo pretendevano di conferire poteri temporali agli ecclesiastici, ma di scegliere e d’innalzare chi loro piacesse al possesso di un impiego ecclesiastico. A tale atto di donazione si dava il nome d’investitura, mercé la quale certe persone erano investite di Un diritto al potere spirituale e temporale di un benefizio.

Non è a dire, o miei cari, quanto gravi disordini cagionassero nella Chiesa le investiture esercitate dai prìncipi temporali, senza dipendere dall’autorità ecclesiastica! Talora avveniva che uomini rozzi, ignoranti, i quali avevano passata la loro vita nel mestiere delle armi, venissero innalzati alle prime cariche ecclesiastiche a grave scandalo dei cristiani.

La cosa poi che mise il colmo agli eccessi fu il pretendere che i medesimi Papi non potessero più essere eletti senza l’approvazione dell’imperatore. Toccava a Gregorio VII porre rimedio a mali così gravi.

Questo Pontefice era nato in Toscana da un legnaiuolo, e chiamavasi Ildebrando. Fatto adulto, conoscendo i molti pericoli che un giovane ben costumato incontra nel mondo, abbracciò la vita monastica; ma le sue grandi virtù, la profonda e straordinaria sua sapienza fecero che i Papi lo chiamassero dal chiostro e se ne servissero negli affari di maggior importanza durante il regno di cinque Pontefici. Nel 1073 fu eletto Papa; egli non voleva accettare questa dignità, specialmente perché aveva da fare con un imperatore di Germania, di nome Enrico IV, uomo vizioso ed oppressore della Chiesa; quindi mandò immediatamente ad avvertirlo della sua elezione, pregandolo di non approvarla, «perché, diceva, se io rimarrò Papa, le vostre colpe non rimarranno impunite».

Ciò non ostante Enrico approvò quella elezione nella speranza di avere il Papa favorevole, ed intanto continuava a dilapidare le rendite ecclesiastiche, servendosene per secondare i vizi della crapula e della disonestà. I benefizi delle chiese erano convertiti in paga dei soldati; pretendeva che il Papa sciogliesse il suo matrimonio a fine di potere sposare un’altra moglie: inoltre faceva imprigionare ed uccidere quei sacerdoti e vescovi che si fossero opposti alla sua perfidia ed ai suoi sacrilegi.

Contro di lui si volse intrepido Gregorio; scrisse allo stesso Enrico IV, minacciandolo della scomunica, se non cessava dai suoi disordini. Intanto radunò un concilio, in cui di nuovo fu proibito a tutti gli ecclesiastici di ricevere l’investitura da un secolare.

Alle minacce del Pontefice finse Enrico di volersi assoggettare, ma tosto ricadde nei vizi di prima, e perciò fu realmente scomunicato.

Dovete notare, che la scomunica produce un terribile effetto tra i fedeli cristiani: uno scomunicato non è più ammesso alle sacre funzioni; e se muore in quello stato non viene più seppellito in luogo sacro. Di più, in quei tempi era pur massima universalmente considerata giusta e necessaria (*)[(*) Vedi Muratori (a)] che la scomunica privasse il sovrano della sua autorità e dispensasse i sudditi dall’obbedienza.

Per questo motivo Enrico si vide abbandonato da tutti e minacciato delle più gravi sciagure; perciò risolse di umiliarsi al Papa, ed a questo fine si recò in Italia pel Moncenisio. Giunto alla fortezza di Canossa vicino a Reggio, dove trovavasi il Papa, stette tre giorni vestito da penitente; finalmente Gregorio lo accolse, e persuaso che fosse pentito dei suoi misfatti, assoltolo dalla scomunica, celebrò la Messa alla sua presenza.

Fu un bel momento quello in cui il Papa con l’Eucaristia in mano, ricordando a quel principe i delitti che gli erano imputati, pronunziava queste parole: «Per togliere ogni ombra di scandalo voglio che il corpo di nostro Signore, che ora prenderò, sia oggi una prova della mia innocenza, e che se io sono colpevole, Dio mi faccia subitamente morire».

Consumata quindi una parte dell’ostia si volse ad Enrico e gli disse: «Fate altrettanto, figliuol mio, prendete quest’altra parte dell’ostia santa; e questa prova della nostra innocenza imporrà silenzio ai nostri nemici».

Il re, sbigottito ed attonito alla inaspettata proposta, se ne scusò, pregando il Pontefice a differire quello esperimento.

Tutti si accorsero che il re fingeva di essere ravveduto: infatti pochi giorni dopo violò le promesse fatte al Papa, e il Papa lo scomunicò nuovamente. Allora Enrico montato in furore, e lasciandosi trasportare ad ogni eccesso, perseguitò accanitamente la Chiesa, cercò uno scomunicato al pari di lui, lo creò egli stesso Papa, ed a mano armata il condusse in Roma, costringendo Gregorio a ritirarsi nella fortezza di Castel S. Angelo.

Ma era ancora in vita il normanno Guiscardo: fedele alle date promesse, come ebbe sentore delle calamità cui era ridotto il romano Pontefice, si mosse in soccorso di lui, ed obbligò Enrico a tornarsi in Germania, lasciando l’Italia in disordine. Tuttavia i partigiani di Enrico tessendo continue trame contro Gregorio, questi giudicò bene di ritirarsi a Salerno per essere più sicuro. Colà, sorpreso da una grave malattia, morì nel 1085, dopo tredici anni di luminosissimo pontificato. Prima di morire pronunziò queste parole: «Ho amato la giustizia, ho odiato l’iniquità, per questo muoio in esilio».

Questa contesa tra l’imperatore ed i Papi continuò ancora qualche tempo appresso, mentre regnava Enrico V, successore di Enrico IV, ed ebbe fine durante il pontificato di Calisto II nella città di Worms, dove si conchiuse nel 1122 un trattato pel quale il re si obbligava di rinunziare al diritto d’investitura spirituale, a lasciare libere le elezioni dei prelati, ed a restituire i beni presi alle chiese. Ritenevasi per altro il diritto d’investitura temporale.

La giusta fama di Gregorio VII, difensore della libertà della Chiesa, fu per lungo tempo contrastata dai sovrani di Europa, ai quali non piaceva la dottrina che un Papa possa scomunicare un regnante; ma i più dotti scrittori riconoscono in questo Papa uno dei più illustri Pontefici. Anzi un autore tedesco, e quel che è più, protestante, di nome Voigt, pubblicò una vita di questo Papa, corredata di tutti i documenti possibili, con cui chiaramente dimostra la ragionevolezza della sua condotta, e non dubita di chiamarlo energico difensore dell’Italia contro l’influenza straniera.

Pertanto noi Italiani dobbiamo avere questo sommo Pontefice in grande ammirazione, sia perché rese in certa maniera l’Italia indipendente dagli stranieri, sia perché d’allora in poi gli imperatori e i re non ebbero più alcuna parte nella elezione dei romani Pontefici; anzi possiamo dire che dopo Gregorio VII cessò interamente l’influenza straniera sopra gl’Italiani, e fu posto un argine alle invasioni dei barbari.

Appunto in quest’epoca la maggior parte delle città d’Italia presero una nuova forma di governo, con cui esternamente parevano ancora dipendenti dagli imperatori di Germania, ma internamente erano affatto libere. Queste città erano governate da tre o sei consoli, poi dai podestà e capitani del popolo, i quali avevano nelle loro mani concentrata ogni autorità. Le città così costituite appellaronsi Comuni.
XX.
Le Crociate (99).

(Dall’anno 1085 all’anno 1099).


Un curioso avvenimento del Medio Evo, che mise in moto quasi l’Europa intera, furono le Crociate, vale a dire una grande spedizione di prìncipi e di soldati europei nella Terra Santa a fine di liberare Gerusalemme dalle mani dei Turchi.

Per molti secoli i Luoghi Santi erano stati in custodia dei cristiani, e ciascuno era libero di andar a visitare il Sepolcro del Salvatore. Ma dopochè i Turchi ed i Saraceni s’impadronirono della Palestina, i Luoghi Santi erano in mille guise profanati. Per molto tempo fu permesso ad un sacerdote cristiano di custodire il santo Sepolcro, ed alcuni ricchi mercatanti di Amalfi poterono eziandio fondare uno spedale in Gerusalemme per accogliervi i poveri pellegrini ammalati. Di poi fu proibito l’ingresso a chicchessia, e difficilmente, anche pagando, potevansi visitare quei santi luoghi senza pericolo di essere assassinato.

Fra i pellegrini coraggiosi, che poterono giungere fino al Santo Sepolcro, fu un prete francese della diocesi di Amiens, di nome Pietro, soprannominato l’Eremita, a motivo della vita solitaria che piamente menava.

Alla vista delle profanazioni di quei venerandi luoghi, al mirare stalle fabbricate in quello stesso sito dove era stato collocato il corpo del Salvatore, Pietro fu vivamente commosso; e, come giunse in Italia, si presentò al romano Pontefice, che allora era Urbano II. Prostrandosi ai suoi piedi, gli fece così viva pittura dello stato deplorabile di quei santi luoghi, che il Papa, intenerito fino alle lagrime, gli permise di eccitare i popoli dell’Europa ad intraprendere la liberazione di Gerusalemme. Lo stesso pontefice incoraggiò i re ed i loro sudditi a volervisi adoperare.

Gli eccitamenti indefessi di Pietro l’Eremita, il quale predicando la crociata percorse l’Italia, la Francia, e la Germania; l’autorità e le parole di papa Urbano, il tesoro delle indulgenze aperto a chi vi prendeva parte, il desiderio di vedere quei sacri luoghi suscitarono un tale entusiasmo, che da tutte le parti si andava gridando: Andiamo, Dio lo vuole! Dio lo vuole! Genti di ogni condizione, prìncipi, baroni, preti, contadini, donne, fanciulli dimandavano di essere ciascuno arruolati ed insigniti di una croce di stoffa rossa benedetta che si appendeva sopra la spalla destra, e che diede il nome di crociati a tutti coloro che si posero addosso quel segno: l’impresa a cui si accingevano fu detta Crociata.

Raccoltisi in numero stragrande Italiani, Francesi, Inglesi, Tedeschi, si misero in viaggio per quella straordinaria e non mai udita spedizione. I più ardenti e desiderosi di venire alla meta dei loro desideri precedettero gli altri, ma senza disciplina militare e in disordine; perciò, giunti nell’ Asia Minore, caddero nelle mani dei Turchi, i quali ne menarono la più terribile e spaventevole strage. Di cento mila crociati soltanto pochi fuggiaschi poterono salvarsi e cercare un asilo nelle vicine montagne.

Se non che dietro a quelle torme indisciplinate si avanzano veri eserciti condotti da prìncipi e da signori, che avevano presa la croce, tutti indirizzati verso Costantinopoli, capitale dell’Impero d’Oriente. Alla testa di quelle formidabili soldatesche era l’illustre francese Goffredo di Buglione, conte di Lorena, e dopo lui Baldovino suo fratello, conte di Fiandra, Roberto soprannominato Coscia Corta, duca di Normandia, e Raimondo, conte di Tolosa. Ma quelli che tiravano sopra di sé tutti gli sguardi dei crociati erano due prodi italiani, Tancredi e Boemondo. Questi era figliuolo di Roberto Guiscardo, duca della Puglia e della Calabria, uomo di un’abilità e di un coraggio impetuoso, e che alcune volte degenerava in ferocia, ma veramente adatto a somiglianti imprese di ventura. Tancredi era siciliano e cugino di Boemondo; fin dalla fanciullezza aveva saputo accoppiare al più intrepido coraggio la moderazione, la generosità, la modestia, la religione e tutte le virtù che possono adornare un eroe cristiano; egli sentiva quasi rimorso delle sue gesta guerriere, perché gli sembravano condannate dalle leggi del Vangelo, e la tema di spiacere a Dio frenava talvolta il suo coraggio. Queste rare qualità facevano riguardare Tancredi come il modello dei cavalieri del suo tempo, e lo rendevano l’ammirazione di tutti i crociati.

Quel meraviglioso esercito era composto di parecchie centinaia di migliaia d’uomini, parte dei quali combattevano a piedi, armati di lance, di spade, di pesanti mazze di ferro, di cui un solo colpo bastava ad accoppare un uomo; altri erano armati di fionde, colle quali scagliavano molto destramente pietre o palle di piombo; alcuni portavano balestre, specie d’archi che lanciavano a gran distanza acute frecce, la cui ferita spesso era mortale. La maggior parte poi dell’esercito era un buon numero di prodi cavalieri, tutti eccellenti per forza, virtù e coraggio, i quali si erano legati a Dio con voto di dare la vita per liberare quei santi luoghi dalle mani degli infedeli.

Tutte queste numerose schiere giunte nell’Asia Minore, oggidì Anatolìa, si videro venire incontro alcuni infelici crociati, i quali, fuggiti quasi per prodigio dalle mani dei Turchi, raccontavano piangendo i loro infortunii. Ad ogni passo si vedevano avanzi di bandiere o di armature spezzate, e l’orrendo spettacolo di monti d’ossa umane già dal sole imbiancate, che i barbari avevano lasciate sulla strada insepolte, a fine di mettere spavento ai cristiani, i quali osassero inoltrarsi. A quella vista, tutti i guerrieri latini fremettero di sdegno, e come seppero che il Sultano, ossia re dei Turchi, aveva radunato il suo esercito intorno alle mura di Nicea (quella città dove si celebrò il primo Concilio ecumenico), lo andarono ad assalire. Colà si appiccò una sanguinosa battaglia e malgrado gli sforzi dei nemici, la vittoria rimase ai cristiani.

Allora i Turchi radunarono le loro forze in un’altra città dell’Asia Minore, detta Iconio, celebre per la dimora e la predicazione ivi fatta dall’apostolo S. Paolo. Il sultano alla testa di numerose schiere di cavalieri arabi devastò tutto il paese, ove dovevano passare i crociati, i quali di mano in mano che avanzavansi, trovavano distrutte le messi, arse le città ed i villaggi, otturati i pozzi: sicché andarono bentosto soggetti alla fame, alla sete, a disagi e malattie di ogni genere. Intanto giungono dinanzi ad Antiochia, grande capitale della Siria, di cui più volte vi parlai nella Storia Sacra e nella Ecclesiastica. I Latini per andare in Palestina dovevano impadronirsi di questa città. È incredibile e quasi impossibile il racconto delle fatiche e dei patimenti che i cristiani sopportarono, e le prodezze che fecero, mercé cui riuscirono ad impadronirsene.

I crociati si accostavano alla Palestina, oggetto di tutti i loro desideri, e i disagi sempre crescenti aumentavano più ancora la loro impazienza. Gerusalemme, la città santa, la città, ove Gesù Cristo aveva patito la morte per riscattare i peccati degli uomini, pareva il termine ed il rimedio di tutti i loro mali. Finalmente dopo la perdita d’innumerevoli compagni d’armi, dopo i più duri stenti, dopo aver valicato fiumi, valli e montagne; dopo aver consumato le loro ultime forze per camminare innanzi, si sparse una sera d’improvviso la voce nel campo cristiano, che col tornare dell’aurora avrebbero potuto contemplare la desiderata Gerusalemme. La notte passò in pio raccoglimento; un religioso silenzio regnò fra tutti, ed ognuno si preparava colla preghiera ad accostarsi con rispetto al luogo del martirio di Gesù Cristo.

XXI.
Gerusalemme Liberata (100).

(Nell’anno 1099).


Le azioni dei crociati non appartengono propriamente alla storia d’Italia; ma poiché sono cose molto curiose, cui gli Italiani e gli stessi nostri prìncipi di Savoia presero parte, io penso di soddisfare alla vostra curiosità col darvi un breve ragguaglio dell’entrata dei crociati in Gerusalemme.

L’esercito latino attendeva colla massima impazienza che spuntasse quell’aurora, la quale doveva appagare i loro lunghi desideri, quando sul far del giorno dall’alto delle montagne, su cui si erano fermati, videro sorgere dinanzi ai loro occhi quella città, per cui avevano affrontati tanti pericoli. Un solo grido uscì allora ad un tempo da tutte le bocche: Gerusalemme! Gerusalemme: Dio lo vuole! Dio lo vuole! A quella vista gli uni escono in trasporti di allegrezza, altri stemperandosi in pianto si prostrano ginocchioni e baciano divotamente la polvere su cui pose i piedi il Salvatore. Questi si avanzano a piedi nudi per rispetto a quella terra santa; quelli mandano gemiti e sospiri, pensando che la tomba di Cristo è in potere degli infedeli.

Mentre ciascuno lasciavasi dominare da affetti sì ardenti e diversi, un solo cavaliere si arrampicava con fatica sul monte degli Ulivi vicino a Gerusalemme, quel celebre monte, ove Gesù Cristo passò la notte in orazione prima di essere dato nelle mani dei carnefici. Era egli il pio ed intrepido Tancredi, il quale dalla cima di quella santa montagna veniva contemplando sui primi chiarori dell’alba il monte Golgota o Calvario, e la cappella del santo Sepolcro.

Il guerriero, tutto immerso nella sua ammirazione, era ancora prostrato dinanzi la città santa, allora che cinque soldati musulmani, i quali stavano a guardia della montagna, l’assalirono d’improvviso e gagliardamente. Ma il suo braccio non aveva perduto nulla di vigore, e mentre coloro si tenevano sicuri di dargli la morte, egli coraggioso li assale, tre ne uccide, e costringe gli altri a fuggire. Cotesto esempio di valore non era che il foriere dei fatti gloriosi che l’esercito cristiano doveva compiere sotto le mura di Gerusalemme. Riesce difficile il descrivervi le prodezze e gli sforzi fatti dai cristiani per impadronirsi di quella famosa città, di cui i Turchi contrastavano il possesso con tutto il coraggio della disperazione. Vi basti sapere, che dopo quaranta giorni di sanguinosa pugna i crociati avevano pressoché perduta ogni speranza, e già pareva che volessero rinunziare allo scopo tanto desiderato.

Quando un eremita, il quale da molti anni viveva sopra una montagna vicina, scese in mezzo al campo, ove già regnavano il disordine e lo scoramento, per indurli a dare un ultimo assalto e a ricorrere a Dio colla penitenza e colla preghiera. Le esortazioni di quell’uomo di Dio non furono senza frutto; i crociati, tanto i soldati quanto i loro capi, vestiti da penitenti, fecero più volte processionalmente il giro delle mura di Gerusalemme, cantando inni di lode ed invocando l’aiuto del Cielo.

Siffatta processione, in cui prìncipi e cavalieri davano il più bell’esempio di pietà e di raccoglimento, produsse un grande effetto sul restante dell’esercito, per modo che in tutti ardeva un solo desiderio di assalire i nemici e di combattere. Il dì seguente, allo spuntare dell’alba si diede un gagliardissimo assalto; da più lati si portarono lunghe scale, per cui salivano le mura ed entravano in città, a ciò incoraggiati dall’esempio di Goffredo e di Tancredi.

I Turchi, assaliti da tutte parti, si videro costretti ad abbandonare i bastioni e a ritirarsi nell’interno della città, dove i vincitori, animati dalla vittoria, ne fecero terribile sterminio. Il sangue scorreva a rivi in Gerusalemme, in cui non furono risparmiati né giovani, né vecchi, né donne, né fanciulli.

Mentre noi ammiriamo le prodezze dei crociati, certo disapproviamo il furore con cui misero a morte tante vittime innocenti; né si potrebbe altrimenti loro condonare se non al furore dei barbari di cui in gran parte componevasi l’esercito vincitore.

Frattanto il pio Goffredo, che non avrebbe voluto spargere senza necessità neppure una goccia di sangue umano, entrato appena in città, si era spogliato delle sue armi, e coi piedi scalzi, seguito da tre soli servi, recavasi nella cappella del santo Sepolcro, ove si prostrava col maggior rispetto. La voce della divozione del loro capitano si spande fra tutto l’esercito, e fu allora che cessò dal versare sangue umano, cangiando l’ardore della pugna in affetti di divozione.

Pochi giorni dopo la presa di Gerusalemme, i crociati risolvettero di comune accordo di rialzare il trono che era stato un tempo occupato da Davide e da Salomone. La scelta di tutti i baroni cadde su Goffredo di Buglione, il quale si arrese a’ loro voti, ma non volle cingere corona là, dove Gesù Cristo era stato coronato di spine; e invece del titolo di re prese quello di Difensore del santo Sepolcro.

Qualche tempo dopo, e sembrando cessato ogni pericolo pel regno di Palestina, il maggior numero dei crociati, paghi di un trionfo a sì caro prezzo riportato, si posero in cammino per ritornare in Europa carichi delle spoglie di Oriente; e non rimasero presso Goffredo per la custodia della Terra santa se non trecento cavalieri e due mila soldati col valoroso Tancredi.

Questo virtuoso guerriero coll’ammirabile sua pazienza e col generoso disinteresse contribuì non poco ad acquietare gli spiriti dei crociati esacerbati per la penuria dei viveri. Egli fu il primo ad assalire i Musulmani intorno a Gerusalemme: primo a piantare lo stendardo dei Latini in Betlemme sul luogo della nascita del Salvatore; primo che scoprì una foresta, dove i crociati presero i legnami necessari per le scale e per le macchine da guerra, ed in mezzo alle stragi, di cui si contaminarono i Cristiani, fu modello di moderazione e di umanità. Dopo aver riportato molte altre e segnalate vittorie contro ai Musulmani e contro ad altri infedeli, finì pacificamente i suoi giorni in Antiochia nel 1112, lasciando una memoria illustre pei suoi fatti militari, per la saviezza del suo. governo e per le sue opere di pietà.

Così terminò la prima crociata; ma cento anni dopo la fondazione del nuovo regno di Gerusalemme, essendo quella città ricaduta in potere dei Musulmani, tutti gli sforzi tentati di poi da alcuni sovrani d’Italia, di Francia e di Germania per ricuperarla rimasero senza effetto. E benché la maggior parte di quei prìncipi vi abbia acquistato grande gloria, dopo tre secoli di tentativi infruttuosi i popoli dell’Europa rinunziarono affatto a quelle spedizioni lontane e pericolose. Tuttavia da quel tempo in poi fu sempre lasciato libero a ciascun cristiano di potersi recare a visitare i Luoghi Santi; e sebbene alcuni di quei sacri luoghi siano oggidì nelle mani degli eretici o degli infedeli, sono tuttavia da loro medesimi tenuti in grande venerazione.

La liberazione di Gerusalemme fu nobilmente illustrata da un poeta italiano di nome Torquato Tasso, il quale compose un prezioso poema, che ha per titolo: La Gerusalemme Liberata.




XXII.
Saccheggio di Amalfi (101).

(Nell’anno 1135).


Amalfi fu per molto tempo una città floridissima del regno di Napoli; la sua posizione vicino al mare Mediterraneo e l’industria dei suoi abitanti attraevano commercianti da tutte le parti del mondo. La qual cosa destava grande invidia ad un’altra città non meno ricca, potente e desiderosa di signoreggiare. Era questa la città di Pisa in Toscana, celebre per un porto che allora aveva sul Mediterraneo, ed in ispecie per la sua magnifica torre abbellita da più di trecento colonne di colore diverso ed assai mirabile a motivo dell’inclinazione straordinaria, la quale fa parere a coloro che la osservano che sia vicina a cadere.

Queste due città si erano erette in repubbliche, cioè si governavano indipendenti, senza più essere soggette agl’imperatori greci o germani; e sebbene fossero tra di esse rivali, tuttavia comunicavansi i prodotti della loro industria, e facevano quasi un comune commercio nei più remoti paesi.

Se non che i Pisani, ingelositi della prosperità degli Amalfitani, colsero motivo per muovere loro guerra che quelli di Amalfi eransi dichiarati contro a Ruggero re di Sicilia, di cui Pisa era alleata.

Approfittando i Pisani di quella congiuntura, spedirono contro di Amalfi un gran numero di soldati imbarcati sopra vascelli da guerra, ai quali si dava il nome di galere. E fu doloroso spettacolo il vedere uomini della medesima nazione, fino allora amici, che esercitavano il medesimo commercio e la medesima industria, compagni di viaggi nelle lunghe loro spedizioni, venire a battaglia e fare da una parte e dall’altra orribile carnificina! Dopo ostinatissimi combattimenti, i Pisani impadronitisi di quella sventurata città, la saccheggiarono per modo, che d’allora in poi non poté più riaversi da quel disastro.

I mercanti di Amalfi, i cui magazzini erano stati dati in preda alle fiamme ed al saccheggio, abbandonarono Un soggiorno che la gelosia aveva reso loro insopportabile, e andarono a portare nelle altre città d’Italia la loro industria e gli avanzi delle loro ricchezze. Mentre i Pisani sfogavano la propria rabbia contro ai vinti, e assetati di rapine portavano via quanto vedevano di prezioso, un soldato trovò a caso un rotolo di pergamena scritta (specie di carta fatta di pelle), e lo raccolse, senza neppure darsi briga di esaminare ciò che quello contenesse. Passando quel rotolo di mano in mano, venne finalmente in potere di un Pisano erudito, il quale svolgendo con grande cura il manoscritto, osservò che conteneva le Pandette di Giustiniano.

Quell’imperatore, dopo di avere raccolte le leggi dei principi suoi antecessori in un volume, che appellò Codice, aveva eziandio ordinato, che da tutte le opere degli antichi giureconsulti, ovvero avvocati, si ricavasse quanto si giudicava di meglio delle leggi romane, a fine di servire ad un secondo volume di leggi positive, che furono appellate Pandette.

Da molto tempo questo volume era andato smarrito, come accadeva spesso in quelle frequenti invasioni di popoli barbari, per cui un gran numero di libri rari furono smarriti o distrutti. Il dotto, che aveva scoperto le Pandette, si affrettò di portarle ai magistrati di Pisa, i quali, avendone fatto fare parecchie copie, diffusero quel codice prezioso tra i popoli dell’Italia, e il fecero poi conoscere in Francia ed in Germania; la qual cosa contribuì assai a propagare i veri princìpi della giustizia e ad ingentilire i costumi che i barbari avevano introdotto in quei vari paesi.

Per farvi conoscere l’importanza di tale scoperta sarà bene che io vi faccia notare il modo strano con cui era amministrata la giustizia presso di quei popoli d’origine Germanica o Tedesca, quali erano i Franchi, i Goti, i Sassoni, i Longobardi, che alla caduta del Romano Impero in Occidente successivamente avevano fatto dimora in questi nostri paesi.

Quando costoro calarono in Italia, tutti avevano fatto e pubblicato le loro leggi; ma permettevano a ciascuno di vivere e di essere giudicato secondo quella legge che più gli piacesse. Quindi avveniva una vera confusione, perché nella stessa città gli uomini si attenevano a legislazioni diverse. Ora la scoperta delle Pandette, avendo agevolato la cognizione del diritto romano, fece sì che le altre leggi barbare cadessero e sola regnasse la legislazione romana.

Inoltre i barbari per determinare il diritto sovente, come già vi dissi, ricorrevano alla forza. Così quando due uomini credevano di avere motivo di lagnarsi l’uno dell’altro, si presentavano dinanzi al loro barone per far valere le proprie ragioni, assoggettandosi al suo giudizio. Ma quel signore, che il più delle volte non era altro che un gagliardo guerriero e non sapeva né leggere, né scrivere, ordinava che i due litiganti venissero a battaglia in sua presenza, finché uno di essi rimanesse morto sul campo, o si confessasse vinto, persuasi che la ragione dovesse essere dalla parte del più forte.

A questa crudele maniera di rendere giustizia si dava il nome di duello giudiziario, perché era ordinato dal giudice. I baroni ed i cavalieri si battevano in codesti incontri colla lancia o colla spada come in guerra; ma i servi ed i contadini non dovevano servirsi d’altre armi che del bastone, con cui si davano spesso colpi mortali.

La scoperta delle Pandette di Giustiniano coll’aiuto del cristianesimo distrusse quasi affatto quei costumi barbari e solamente presso ad alcuni si tenta di rivocare in vigore il barbaro uso del duello, il quale dà la ragione non a chi l’avrebbe, ma a chi è più addestrato nelle armi.

Reca maraviglia che gli uomini mondani d’oggidì, mentre parlando dell’antico duello giudiziario lo giudicano assurdo e ne ridono, essi tuttavia approvino l’odierno duello volontario, per cui una persona insultata da un’altra, anche con una sola minima parola, la sfida a battersi colla spada o colla pistola. L’uccisore od il feritore avrà forse egli fondata ragione sull’ucciso o sul ferito, perché egli ebbe miglior vista, miglior braccio, miglior destrezza ed anche miglior fortuna? Il duello d’oggidì è tanto brutale e contrario al senso comune, quanto l’antico; eppure si pratica ad onta che sia proibito dalla ragione, dal Vangelo e dalle leggi civili. Badiamo a diffidare dei giudizi del mondo.

Simile al duello è la cattiva usanza di certi giovani, i quali dopo aver per poco disputato fra loro vengono alle mani, si accapigliano e si battono. perché l’uno è più forte dell’altro, avrà egli ragione? Solo col ricorrere alla forza egli dimostra che ha il torto dalla sua parte.



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